Un contratto d'altri tempi

La nascita degli scarponi Olympus Mons e il ricordo di una carriera alpinistica dalle falesie all’Himalaya in inverno.

da una storia di Simone Moro

Il mio input fu quello di lavorare prima di tutto sulla leggerezza. E poi, secondariamente, quello di concentrarsi su delle scarpette interne di tipo diverso in modo da poter modulare il livello di protezione termica in funzione delle esigenze e delle condizioni di scalata. Chiedevo comunque soprattutto che ci fosse attenzione maniacale al peso e di conseguenza anche alla suola. Il modello K2, che era uno dei primi prototipi, era costruito attorno ad una specie di base-scafo a cui era ancorata la suola, sul quale poi veniva costruita la tomaia e quindi il vero e proprio scarpone. Era come una specie di vaschetta dentro alla quale veniva incollato e cucito lo scarpone, che però a mio parere sembrava troppo massiccia e pesante. Giuliano Jellici, dopo avere ricevuto queste indicazioni, si mise al lavoro per escogitare qualcosa e realizzare uno scarpone ancora più leggero. Dopo qualche mese arrivai a Tesero per vedere il prototipo e mi presentarono questo scarpone che aveva una suola artigianale, color marroncino opaco, che non era una vera e propria suola ma piuttosto un campione in materiale estruso che rappresentava il disegno di quella suola che poi sarebbe stata prodotta da Vibram, in gomma. La componente suola-intersuola incide sul peso in modo rilevante, nel caso delle scarpe che venivano costruite fino ad allora quella era la parte più pesante dello scarpone. Lo presi in mano per osservarlo afferrandolo per la ghetta e mi accadde che lo sollevai per aria senza controllo perché era molto-molto più leggero di qualsiasi scarpone d’alta quota che io avevo mai preso in mano fino a quel momento. Ero entusiasta. Era esattamente quello che volevo. Anche per quanto riguardava la suola, per me la soluzione era già perfetta così.
Jellici mi disse di non fare caso alla suola che era solo un prototipo finto messo lì per fare vedere l’effetto finale della scarpa e che poi avrebbe dovuto essere sostituita con una in un materiale più solido, più spesso e quindi anche più pesante.
Io stavo partendo per la spedizione invernale allo Shishapangma e quello scarpone era esattamente quello che volevo. Dovevo convincerlo a farmelo dare. Feci notare a Jellici che era un po’ scettico, che in realtà nel corso di una salita himalayana la suola rimane a contatto con il terreno nudo, senza ramponi, solo in rarissime occasioni. Mai, praticamente. A parte qualche avvicinamento che si può tranquillamente evitare utilizzando delle altre scarpe, lo scarpone d’alta quota funziona per la quasi totalità del tempo accoppiato a un rampone. Bisognava pensare alla scarpa e alla suola della scarpa -  di quello mi ero reso conto in quel momento  -  insieme ai ramponi. Non come una cosa a sé stante come si era fatto fino ad allora.
«Io quando salgo su una montagna di 8.000 metri, a parte quando sono in tenda, ho sempre i ramponi indossati», gli feci notare. Loro rimasero allibiti, non avevano mai pensato alla questione in questi termini. Gli feci notare inoltre che la suola era anche la superficie della scarpa più a contatto con la neve e quella attraverso cui – a causa anche dei ponti termici creati dai ramponi – avveniva la più grande dispersione di calore. La suola campione che mi stavano facendo vedere non doveva probabilmente essere tanto resistente all’usura ma a quanto pareva, con dell’aria intrappolata al suo interno, doveva essere in grado di isolare e trattenere il calore del piede anche meglio dell’altra.

E poi soprattutto, era dannatamente leggera e io la volevo ad ogni costo.

Nacque da questa osservazione, dalla mia voglia di mettermi ai piedi immediatamente questo prototipo così leggero e dalla constatazione che in parti diverse della suola si concentravano esigenze diverse di resistenza e di usura, la soluzione che adottiamo su tutte le scarpe d’alta quota di oggi, che è quella di avere degli spessori e dei materiali differenti in zone differenti della suola. Sulla punta era chiaro che sarebbe servita più robustezza, anche in caso della necessità di dover superare dei tratti in arrampicata su roccia mentre sulla porzione centrale della suola si concentravano le necessità di isolamento termico. È stata una scelta visionaria che ha aperto un nuovo modo di pensare alle scarpe e che ha tracciato una strada. C’è anche da dire che in quel momento le scarpe d’alta quota che andavano per la maggiore erano in plastica, si trattava in quel momento non solo di decidere di come fare le scarpe ma anche di chiedersi se era ragionevole pensare agli scarponi d’alta quota del futuro senza lo scafo in plastica.
L’idea di non usare la plastica ebbe origine dalla duplice esigenza di innovare andando a pescare dal proprio know-how industriale e di contenere i costi per la produzione degli stampi. È stata la capacità di sottrarsi alla ovvietà di scelte che sembravano obbligate, la carta vincente di La Sportiva, come al solito.


Facendo di questi limiti i punti di forza del progetto, è stata creata una serie di scarpe di successo che hanno tracciato la strada nel campo della montagna. Da lì in poi da quegli scarponi e da quelle soluzioni sarebbero derivati anche altri modelli adatti all’utilizzo sulle Alpi o su montagne più basse. Oggi gli scarponi d’alta quota in plastica non esistono più. In questo campo, applicando il metodo La Sportiva, questa azienda ha fatto scuola e stabilito uno standard.

Nelle foto in senso orario, bivacco al GII,in vetta al Makalu, verso la cima dello Shishapangma

Contratto d’altro tempi

Il primo contatto di sponsorizzazione avvenne in occasione della gara di arrampicata di Sportroccia, nel 1985 e avvenne attraverso il negozio Sciola Sport, dove mi fornivo e lavoravo a tempo perso per guadagnare qualche soldo. Accompagnato da Camòs che a quell’epoca era già un membro del team La Sportiva, andai a Tesero. Ad accogliermi c’erano Francesco e Lorenzo, padre e figlio. Uno era l’ombra dell’altro, Lorenzo seguiva e accompagnava Francesco in ogni movimento e in ogni spostamento all’interno della azienda. Andammo in magazzino e mi fecero provare un paio di Mariacher, erano ancora quelle con il bollino azzurro, le prime con il logo vecchio. Poi salimmo in ufficio per firmare il contratto. Insieme a due paia di scarpe ogni anno avrei ricevuto due paia di fuseaux in lycra, due magliette senza maniche - una gialla e una viola - e una felpa. Era materiale che avrebbe potuto comodamente essermi spedito presso il punto vendita a cui ero collegato, da Sciola Sport. Sarebbe stato più comodo ed economico ma io cercai sempre, in tutti i modi, di andare a prendermi le scarpe e i materiali di cui avevo bisogno in azienda, di persona.
Tra andare e tornare da Bergamo, dove abitavo io, per ritirare quel poco materiale mi sarebbe costato di meno andarmelo a comprare. Però per me c’era il piacere e la gratificazione di riceverlo direttamente dalle mani di Francesco e Lorenzo, ogni anno. Consideravo tra i valori anche la possibilità di essere accolto in azienda e ascoltato, considerato per qualche minuto.


La Sportiva era la azienda per cui lavoravano Manolo e Mariacher, i grandissimi dell’arrampicata di quegli anni, soprattutto Manolo era il mio mito. Questo voleva dire ai miei occhi, in un certo senso, essere in qualche modo vicino a loro, appartenere al loro mondo e quindi indirettamente ricevere un’attenzione che non era riservata a chiunque e che poteva essere messa a disposizione solo di un numero limitato di persone. E io ero tra quelle. Il mio rapporto di sponsorizzazione continuò sempre con questa serie di pellegrinaggi all’azienda che sono diventati oltre che un’abitudine anche un rito. Penso in 33 anni di storia di collaborazione con La Sportiva di essermi fatto spedire il materiale a casa soltanto poche volte, ho sempre cercato di andare a prendermelo di persona e di incontrare Francesco, Lorenzo, Jellici e tutte le persone che lavorano in azienda. È questo incontrarsi regolare e continuo che ha fatto diventare il nostro rapporto così speciale.

Scarpe piccole

La Mega è la scarpa più piccola che io abbia mai calzato e usato in vita mia, si trattava di una scarpa di misura 37.5, io ho il 42.5. Mi ricordo che me la feci allargare e rodare da un amico che aveva un piede più piccolo del mio. Il procedimento di formatura della scarpa tramite l’uso prevedeva che qualcuno con un piede più piccolo, un amico o una fidanzata magari, già in grado di calzarla di una misura inferiore, cominciasse ad allargarla facendole prendere la forma. Dopo questa fase di rodaggio iniziale si cominciava ad usarla ai propri piedi e si poteva finalmente disporre di una scarpa precisissima, che calzava come un guanto. Era folle. Avete mai provato a calzare una scarpa cinque numeri più piccoli del vostro? L’idea che avevamo allora dell’uso della scarpa aveva a che fare con l’appoggio del bordo della suola e della rigidità che in mancanza di intersuola doveva essere realizzata con la compattezza della scarpa. Allora non esisteva ancora il concetto di spalmare la suola sugli appigli. Le suole che erano più spesse, perché dovevano soprattutto durare, quando perdevano lo spigolo del bordo e si arrotondavano in punta, si consideravano da cambiare. Poi dopo sono arrivate le suole più sottili come le Kendo e allora anche il nostro modo di usare i piedi sugli appigli è cambiato di conseguenza.
La Mega era legata all'immagine di Stefan Glowacz.


La Manolo

Il campione di tutti gli atleti La Sportiva, la vera icona e il mio modello di riferimento era  - e rimane, a mio parere  -  Manolo. Insieme a Messner è uno dei miei due miti di arrampicatore e di alpinista. Quindi quando è uscita la Manolo, la sua scarpa, quella doveva esser la migliore in assoluto. Il vertice tecnologico dei prodotti La Sportiva. E invece quella scarpa, sebbene contenesse in seme molte idee che sarebbero poi state sviluppate in tempi successivi, fu probabilmente una dei progetti meno riusciti di
La Sportiva. Nasceva ambidestra, cioè tentando di risolvere il problema della punta delle scarpe che si consumava e che perdeva in precisione e in efficienza e che quindi in breve tempo riduceva la possibilità di fornire prestazioni al di sopra della media. Disporre di una scarpa ambidestra, che poteva essere indossata sia sul piede sinistro che sul destro, significava in sostanza raddoppiarne la durata. L’idea era interessante. Poi c’era il fascione che spingeva in avanti il tallone, che era geniale.

Io ricordavo di averle viste ai piedi di Manolo, verdi, all’epoca non sapevo che i suoi prototipi non erano ambidestri come le scarpe che usavo io. Me ne ero fatto dare un paio e in verità le usai sempre senza invertirle. Era evidente che erano riuscite meno bene delle Mariacher e che non funzionavano con altrettanta efficacia però io continuai ad usarle per un periodo piuttosto lungo perché portavano il nome di Manolo e perché Manolo era il mio idolo. Era quel lato ingenuo e un po’ sognatore del mio carattere che mi spingeva a insistere, a cercare di convincermi che al migliore arrampicatore del Team La Sportiva doveva per forza corrispondere la scarpa migliore, è una caratteristica che ho conservato e che tutto sommato trovo divertente e che non rinnego. Alla fine sono sempre stato convinto che la differenza tra il riuscire e il non riuscire, in ultima analisi, aveva sempre a che fare con la persona, con l’uomo. Non poteva dipendere dalle scarpe, doveva necessariamente dipendere da me. Ero io che  -  eventualmente  -  dovevo compensare la differenza e imparare a fare quello che faceva Manolo. In fondo mi sento di dire, per tutta la mia carriera, anche quando gli altri consideravano le cose che tentavo di fare ridicole o impossibili, non ho mai smesso di provarci. È per quello che in certe imprese, credo di esserci riuscito.
La Manolo era una scarpa assurda che però conteneva un’anima e un sogno, forse a me le Manolo non hanno fatto fare un grado in più in falesia ma hanno senz’altro contribuito a rendermi quello che sono: un sognatore e un idealista.


Gashebrum 2 SM


Sviluppato in collaborazione con l’alpinista Simone Moro,

Gashebrum 2 SM racchiude in sé quanto di più evoluto sia oggi disponibile nel campo della tecnologia applicata alla tecnica calzaturiera. Il nuovo modello presenta volumi esterni molto contenuti, pur essendo uno scarpone termico doppio d’alta quota, con peso ridotto del 15% rispetto alla precedente versione e diventa in assoluto il più leggero della categoria. Utilizza una nuova suola altamente isolante, con inserti antiusura in gomma differenziata