Scarpe che hanno scritto la storia

Dall'alpinismo eroico ai Nuovi Mattini

L’alpinismo eroico sulle Dolomiti comincia negli anni ’50 con figure come Bepi De Francesch e Cesare Maestri. Scarponi rigidi, chiodi e staffe per affrontare gli strapiombi, poi arriva Messner e la rivoluzione del sesto grado. Una nuova generazione di scalatori indossa scarpe da basket, fino all’arrivo delle prime scarpette.

testo di Enrico Camanni

Dopo essere stato fondato nel 1928 e aver operato attivamente durante la seconda guerra mondiale, il calzaturificio La Sportiva comincia a prendere posto sulla scena del grande alpinismo tra gli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento. Il teatro è tipicamente dolomitico e il periodo è quello delle direttissime o delle vie a goccia d’acqua sugli strapiombi calcarei. A fianco di Cesare Maestri risalta la figura di Bepi De Francesch, il cui carattere schivo contrasta con il trionfo mediatico delle imprese dell’epoca. Non c’è ombra di esibizionismo in questo bellunese arruolato nelle Guardie di Pubblica Sicurezza e generoso animatore della Scuola Alpina delle Fiamme Oro, che le fotografie dell’epoca ritraggono quasi sempre con gli scarponi di cuoio ai piedi, appeso a staffe e scalette, lo sguardo stupito e il cappello di lana sulla testa. De Francesch esprime la volontà, se non il dovere, di percorrere fino in fondo la strada delle direttissime. Nel 1961 si festeggiano i cent’anni dell’Unità d’Italia.
Cullato dal boom economico il Paese scopre l’automobile e la televisione. Tra gli eroi più amati dagli italiani c’è l’alpinista bergamasco Walter Bonatti, che nel luglio del 1961 è protagonista di una terribile tragedia sul Pilone centrale del Frêney. Sette scalatori di livello internazionale sono sorpresi dalla tempesta oltre i quattromila metri di quota, non lontano dalla cima del Monte Bianco; dopo una ritirata di più giorni Bonatti riesce a riportarne in salvo solo due, oltre a se stesso. Ancora una volta l’alpinismo entra nel tritacarne mediatico, tra chi lo considera un suicidio e chi invoca prudenza e misericordia. Riesce indigesto ammettere che nell’epoca del miracolo tecnologico si possa morire sotto la neve in piena estate. Dall’altra parte delle Alpi il pubblico si appassiona al nuovo progetto di Bepi De Francesch: la fantastica prua gialla del Piz Ciavazes, 2828 metri, che precipita sui tornanti del Passo Sella, la strada più battuta delle Dolomiti. Il fendente del Ciavazes, oltre che bello, è una provocazione alla forza di gravità.
In Val di Fassa si dice che «se fosse capovolto non supererebbe il quarto e il quinto grado, e con delle ottime cenge in mezzo»; peccato che si tratti di una geologia rovesciata, con i soffitti al posto dei gradini. Nel settembre del 1961 De Francesch decide che è venuto il momento di «attaccare quel diavolo di spigolo» con i fidatissimi Quinto Romanin, Cesare Franceschetti ed Emiliano Vuerich. «Se fossi riuscito a vincerlo lo avrei dedicato al Centenario dell’Unità», dichiara Bepi, dunque non manca la giustificazione patriottica. Ma prima bisogna scalarlo, ed è quasi un’esibizione pubblica. Il biografo di Bepi, Tommaso Magalotti, racconta che «la scalata ebbe per quasi tutta la sua durata una platea di spettatori che in certi momenti finivano con il rallentare e talvolta addirittura con l’intasare la viabilità del passo. Tutti si fermavano con le loro auto e una volta scesi, naso all’insù, pieni di curiosità seguivano l’insolito spettacolo».


Innanzitutto è una questione di materiali. La sera dell’11 settembre i quattro rocciatori si accomodano in due tende ai piedi dello spigolo. Hanno viveri per alcuni giorni, centocinquanta chiodi normali, cento chiodi a pressione, alcuni cunei di legno per le fessure larghe del calcare, quindici staffe, varie corde da arrampicata (di cui due da cento metri) e un lungo cordino da recupero. Ai piedi portano scarponi La Sportiva con suola Vibram. La mattina del 12 settembre De Francesch e Romanin scalano il primo tratto verticale e chiodano un diedro strapiombante, poi arriva il primo soffitto dello spigolo, che il capocordata affronta direttamente: «Tra me e la roccia si ingaggia una lotta disperata: io dico che l’amo, ma lei non ci crede». A metà pomeriggio i due raggiungono il grande tetto. De Francesch recupera una bandiera e la fissa sotto il soffitto. Appena il tricolore sventola nella sera, dalla strada del Passo Sella salgono alcune grida: «Viva l’Italia!». Il secondo giorno è dedicato al soffitto centrale che esce di cinque metri nel vuoto, perfettamente orizzontale. È un lavoro di forza e pazienza: servono circa trecento colpi di martello per forare la roccia e farci entrare il chiodo a pressione; quindici colpi e un bel respiro, altri quindici e una scrollata. «Scolpivo la mia via. Mentre andavo in fuori per quel grande tetto pensavo alla figura di Michelangelo che in quella stessa posizione dipingeva la volta della Sistina». La sera del 13 settembre i quattro poliziotti delle Fiamme Oro bivaccano appesi ai chiodi e la mattina del 14 raggiungono la Cengia dei Camosci a metà parete. Ormai lo spigolo è scalato, ma l’etica impone di andare in vetta al Piz Ciavazes. Ci arrivano un’ora dopo mezzogiorno sotto il cielo pastello di settembre. Estraggono la bandiera e la sventolano di nuovo. Battezzano la nuova via Italia 61. Superata l’epica dell’artificiale l’alpinismo cambia direzione.

Si va verso la scalata libera e il grande alpinismo invernale, andino e himalayano. Gli scarponi fiutano la nuova aria: sempre più morbidi e leggeri per la libera, più rigidi e massicci per la neve e l’alta quota. L’ampezzano Lino Lacedelli, consulente La Sportiva, impersona le due tendenze perché è valente scalatore dolomitico e alpinista himalayano. In gioventù ha salito pareti molto difficili come il muro di Cima Scotoni e nel 1954 è stato sulla cima del K2, primo uomo insieme ad Achille Compagnoni a raggiungere la vetta del gigante di ghiaccio. Negli anni Settanta l’alpinismo subisce una specie di forza centrifuga: la zavorra della tradizione perfeziona e appesantisce i materiali, mentre l’alito della trasgressione tende a ridurre, semplificare, velocizzare. Anche l’enfant prodige Reinhold Messner interpreta le due vie, e lo fa correndo e togliendo sempre più. Nel 1968, prima di perdere il fratello Günther sul Nanga Parbat, ha scritto che i chiodi e la tecnologia sono gli «assassini dell’impossibile

AD OGNI EPOCA LA SUA INNOVAZIONE. I componenti della spedizione Austriaca al Lhotse, nel 1970, utilizzano l’innovativo scarpone Alta Quota con scarpetta interna doppia. Nella prima versione del logo di La Sportiva apparivano i cinque cerchi olimpici, proprio per sottolineare il legame tra il calzaturificio della Val di Fiemme e lo spirito sportivo.

ESSENZIALE (qui sopra) Didier Raboutou in arrampicata in Verdon con le rivoluzionarie ballerine di La Sportiva



Intanto il mercato dello sci sta invadendo gli spazi alpini, portando nelle valli lo sport delle masse. Sulle Alpi nascono stazioni gigantesche, in tutto simili alle città di pianura. La famiglia Delladio segue il nuovo mercato degli scarponi da discesa finché questi sono fatti di cuoio, che è lo storico materiale di riferimento; quando arriva la plastica e gli sciatori indossano scafi rigidi, sintetici e colorati, coerentemente i Delladio rinunciano. Secondo tradizione la Casa della Val di Fiemme rivolge la sua attenzione e le proprie energie all’alpinismo e all’arrampicata, ma anche lì soffia vento di rivoluzione. E pensare che all’inizio degli anni Settanta gli alpinisti vestivano ancora con i calzettoni in lana fatti a mano e pantaloni alla zuava. Una specie di divisa da montanaro.


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Dieci anni dopo è cambiato tutto. Gli scalatori di ogni età si danno del tu, usano parole inglesi come free-climbing, indossano salopette marchiate Fila e Cerruti e scarpette a suola morbida prodotte dalla francese EB e da La Sportiva. Il grigioverde degli alpini è morto e sepolto, uno sbiadito ricordo della Guerra Bianca. Sulle pareti di roccia si ostenta la nuova arrampicata protetta, si provoca, non ci si nasconde più. Se per gli alpinisti dell’epoca eroica il completamento obbligatorio della scalata era la vetta, che come una medaglia della vittoria corrispondeva alla croce stagliata sulle creste, con il Nuovo Mattino dell’arrampicata la cima è sparita: non c’è più nessun fine, e nemmeno una fine. A concludere una scalata bastano l’allentarsi del vuoto e il termine del precipizio, della vetta non si sente più il bisogno. I ribelli hanno introdotto il termine provocatorio di altopiano, che è molto più di un concetto geografico. Significa che per divertirsi è sufficiente scalare la parete e che l’arrampicata è diventata fine a se stessa, uno sport per tutti. Quasi di massa. I Delladio colgono l’opportunità, anche perché in quel momento la plastica si sta prendendo pure gli scarponi da alpinismo. Dopo il passaggio intermedio della scarpa Yosemite ideata con Alberto Campanile, allora forte arrampicatore, nei primi anni Ottanta una vincente intuizione sposta il focus dell’azienda sul settore dell’arrampicata sportiva, arruolando personaggi geniali come Heinz Mariacher, Luisa Iovane, Manolo e Roberto Bassi. Viene ideata e realizzata un’innovativa scarpetta dai caratteristici colori viola e giallo – la Mariacher appunto, anno 1982 – che sarà capostipite di una serie di prodotti all’avanguardia e segnerà in breve tempo il successo mondiale del marchio. Heinz è un forte scalatore e un appassionato sperimentatore, inoltre ha spirito imprenditoriale. Progettando la sua scarpetta ha capito che l’immaginario collettivo degli arrampicatori è in fervente attesa di una scarpa morbida, precisa, un po’ magica. Con le sue scarpe morbide ai piedi si sentono tutti più bravi e soprattutto, più moderni. La Mariacher viola e gialla è la nuova divisa, uno stile, il simbolo del cambiamento. Da alcuni anni l’evoluzione della scarpa da scalata risponde a tre concetti: leggerezza, flessibilità e colore. Dallo scarpone rigido di alpinismo si è passati a suole più morbide e flessibili come la Civetta Flex, firmata sempre La Sportiva.

Qualcuno aveva già cominciato a provare le scarpe da tennis o da ginnastica, aggiungendovi fantasiose suole di airlite. Intanto dalla Francia arrivavano le prime scarpette ad hoc, le mitiche PA di Pierre Allain (la cui produzione era cominciata nel 1947) e le dolorosissime EB.

In Italia nel 1976 usciva il modello Canyon della Asolo, studiato da Yvon Chouinard e Alessandro Gogna. Ma il risultato era sempre una scarpa troppo dura per i piedi, che a causa della rigidità perdevano aderenza. Anche i colori erano ancora timidi, rispettosi, quasi castigati. La rivoluzione, dopo le tinte salamandra della scarpetta San Marco di Alessandro Grillo, s’imporrà nel mercato dell’alpinismo con il viola della Mariacher, un colore che in montagna non si era mai visto. La nuova scarpa dai colori irriverenti è precisa, duttile, comoda, molto più bassa sulla caviglia e consente prestazioni elevate. Pochi anni dopo, nel 1984, uscirà la prima ballerina derivata dalle scarpe da ginnasta, comoda quasi come una pantofola, ideale per giocare sulle falesie.

Nell’estate del 1985 arriva l’eresia delle eresie: la gara verticale. Si gareggia sulla storica Parete dei Militi della Valle Stretta, sopra Bardonecchia, in Piemonte. Sulla spinta dell’accademico torinese Andrea Mellano, del giornalista Emanuele Cassarà e del fuoriclasse Marco Bernardi, dal 5 al 7 luglio si celebrano le prime competizioni europee di arrampicata sportiva e i giudici fanno il loro ingresso nella storia anarchica e libertaria della montagna con la benedizione di Riccardo Cassin, somma gloria dell’alpinismo del Novecento. Atleti e atlete con il pettorale si esibiscono davanti a centinaia di spettatori festanti, in un rito collettivo e liberatorio che ricorda Woodstock e i concerti da stadio.

La Sportiva ci crede e appoggia le gare di scalata fin dagli esordi, candidandosi come sponsor di Sport Roccia a Bardonecchia e del Rock Master di Arco e aggiudicandosi atleti di primo piano come Stefan Glowacz, Didier Raboutou e Catherine Destivelle. Del gruppo fa parte anche Manolo, che è contrario alle gare ma è lo scalatore più famoso d’Italia. Il più carismatico. Gli amici lo chiamano il Mago per la sua capacità di leggere la roccia e inventare linee impossibili, immaginando anche gli appigli che non si vedono. Lui la definisce intelligenza motoria. Si è imposto all’attenzione del mondo alpinistico arrampicando in libera alcune vie dolomitiche di prestigio come la Carlesso e la Cassin alla Torre Trieste, nel gruppo del Monte Civetta, oppure la via di Emilio Comici alla Cima Grande di Lavaredo, e ripetendo con Mariacher, Iovane e Pederiva la temutissima via Attraverso il Pesce sulla parete sud della Marmolada. Nel contempo ha aperto con una manciata di chiodi itinerari durissimi sui grandi muri di calcare e ha spinto l’arrampicata in falesia ai vertici mondiali assoluti. Gli aspiranti ripetitori hanno constatato a gran fatica e sulla propria pelle il misterioso livello delle vie del Mago, perché Manolo è poco propenso alla pubblicità e sceglie sempre montagne defilate e pareti nascoste. La prima rivelazione pubblica del suo talento è legata a un luogo che al tempo non frequenta nessuno, il Totoga, modesto risalto dolomitico che divide la Valle del Vanoi da quella dello Schener, non lontano da Imèr e Fiera di Primiero. A oriente il Totoga presenta una parete verticale e accessibile quasi tutto l’anno, il luogo ideale per cimentarsi sulle alte difficoltà. Manolo la frequenta assiduamente, esplora e scala la roccia salda e solare, inventa alcuni itinerari, finché nell’estate del 1981 lascia il segno che dura: «Pesavo molto poco a quel tempo – dichiara –, m’ero cacciato in testa che così leggero avrei potuto appendermi dappertutto e quel giorno riuscii in un passo veramente molto difficile su ‘Il Mattino dei maghi’». Nel vocabolario di Manolo molto difficile è un abbinamento di parole da paura. Infatti negli anni successivi, respinti dalle difficoltà e dalla chiodatura a dir poco spartana, gli sparuti imitatori scoprono che ‘Il mattino dei maghi’ rappresenta un exploit irripetibile. Sull’intera lunghezza di corda Manolo si è protetto solo con un cuneo, due chiodi normali e due chiodi a pressione vecchio stile, eppure la via raggiunge il nono grado superiore (7c+ nella scala francese)! In Europa, in quel momento, Il mattino dei maghi corrisponde al livello massimo mai concepito e scalato. Nemmeno i campionissimi francesi Patrick Berhault e Patrick Edlinger sono ancora riusciti a scalare così in alto, anche se la Francia è la patria indiscussa dell’arrampicata sportiva.

BALLERINE


Nel 1984, all’insegna della leggerezza e della massima sensibilità nascono le scarpe ‘Ballerina’ che daranno il nome non solo al modello ma a una nuova categoria di scarpe da arrampicata.

Le ballerine segneranno una sorta di punto di non ritorno nella direzione dello sviluppo delle scarpette da arrampicata del futuro

ALTA QUOTA


Lo scarpone 'Alta Quota' utilizzato nella spedizione Austriaca al Lhotse nel 1970

«un po’ mi dispiaceva che la scarpa che portava il mio nome fosse la scarpa peggiore della storia de la sportiva, perÒ mi consolo con l’idea che conteneva alcune soluzioni tecniche che sarebbero poi diventate lo standard delle scarpette
d’arrampicata del futuro»


Manolo