Volevo fare il meccanico

da una storia di Giuliano Jellici

A mio padre avevo sempre detto che di lavoro volevo fare il meccanico, qui in Val di Fiemme, senza andare via. Soldi non ce n’erano, e dove mai sarei potuto andare? La cosa di cui ero assolutamente certo era che di mestiere non volevo fare scarpe, come faceva lui. Mio padre Virgilio lavorava a La Calzoleria Sportiva di Narciso Delladio. Io volevo lavorare nel campo della meccanica, quella era la mia passione. Così ero finito in un’officina che produceva armonium. Il proprietario aveva appena comprato dei macchinari dalla Germania ed erano complessi e delicati: serviva uno che se ne occupasse, che li capisse. Che li facesse funzionare, sempre. Cercavano ragazzi a cui piaceva la meccanica, svegli, da avviare alla professione di manutentore e così mio padre aveva fatto il mio nome. È cominciata così. Facevo soprattutto piccole riparazioni, modifiche. Dopo un po’ di anni alla fabbrica di armonium mi sono reso conto che avevo bisogno di tornare a scuola, se volevo progredire nella conoscenza della meccanica e così ho fatto, sono tornato a studiare. Durante una di quelle estati avevo bisogno di lavorare un po’ e mi sono rivolto a mio cugino Francesco, che nel frattempo era subentrato a zio Narciso nella direzione de La Sportiva. Doveva essere un impiego temporaneo, qualche mese soltanto, per racimolare un po’ di quattrini. Ecco, da lì sono rimasto in azienda per 45 anni. Erano gli anni Settanta.


Quando ho iniziato, come aiutante stagionale, facevo un po’ di tutto: compiti generici e produzione, quello che mi dicevano di fare. Quello che capitava. A quell’epoca la produzione era quasi tutta manuale, totalmente artigianale, ma era anche un periodo particolare: anche nel campo delle calzature da montagna iniziava la transizione verso procedimenti più industriali e meccanizzati. Soltanto che certi operai o certi capi reparto preferivano andare avanti nel lavoro come avevano sempre fatto, le macchine non le usavano volentieri. Erano state comprate per semplificare e accelerare il lavoro ma erano state presto accantonate e in pratica nessuno le usava volentieri. Quando chiedevo il perché, la risposta era sempre la stessa: perché non funzionavano bene. Allora io, con la mia passione per la meccanica, un po’ a tempo perso e un po’ per curiosità, ho cominciato ad occuparmene, rimettendole in moto. Nella maggior parte dei casi avevano solo bisogno di essere registrate o messe a punto, avviate e poi mantenute, poca roba al confronto con il mio lavoro alla fabbrica di armonium. Certe lavorazioni che manualmente richiedevano un’infinità di tempo, con la macchina potevano essere fatte molto più velocemente e poi soprattutto la qualità era nettamente superiore. Le cuciture, per esempio: la finitura San Crispino per gli scarponi pieno fiore che faceva la macchina era davvero precisa, i punti delle cuciture erano sempre a distanza regolare. Perfetta. Quando Francesco - che ha sempre creduto nell’innovazione e nella tecnologia - si è accorto che le macchine dopo la mia messa a punto miglioravano anche la qualità dei prodotti e del lavoro, ha cominciato a insistere per farmi restare, non voleva lasciarmi andare via. E così alla fine sono rimasto, perché era chiaro a quel punto che il mio lavoro aveva sì a che fare con il produrre le scarpe, ma soprattutto con la meccanica. Come piaceva a me.


Gli anni ‘70

Quando sono entrato in azienda negli anni ’70 gli scarponi dovevano essere soprattutto resistenti. Si usavano pelli pieno fiore, concia naturale a tenuta all’acqua, suole rigide. Poi è emersa l’esigenza della leggerezza e anche le tecniche dell’arrampicata libera stavano avanzando, lavoravamo su scarpe sempre più leggere e su pedule a suola morbida, abbiamo provato a costruirne anche con la suola liscia e flessibile. A me piaceva Comici e mi affascinava l’idea che lui andasse a scalare con scarpe di tela leggerissime e con suola liscia. Con quelle ai piedi aveva aperto una via sulla Torre Venezia, che ero andato a vedere. A quel tempo, prima di Mariacher e delle sue scarpette viola, il nostro riferimento era Alberto Campanile. Con lui abbiamo iniziato a lavorare su una Winkler, che era una scarpa semplice, scamosciata. Avevamo provato a metterci una suola liscia. Erano gli albori. Si avvertiva che l’arrampicata aveva imboccato una strada nuova e anche le scarpe dovevano essere adeguate. Moderne. Bisognava cambiare.

Le scarpette a quell’epoca non nascevano da progetti veri e propri. All’inizio non le disegnavamo neanche. Partivamo da quello che c’era in produzione e lo modificavamo nei particolari per crearne una nuova versione. Ci chiedevamo quale fosse lo scopo finale di questa scarpa o che cosa ci fosse da migliorare. E da lì si procedeva per tentativi, usando la testa ma anche le mani, il martello e i piedi. Lavoravamo con le forme. Quello che facevo io tra le altre cose, oltre alla manutenzione e alla messa a punto dei macchinari, era ascoltare le idee degli alpinisti o degli arrampicatori, che arrivavano da noi con delle proposte, e cercavo di trasformare quelle idee in scarpette e in soluzioni utilizzabili in serie. Alberto Campanile è stato il primo, poi in seguito sono arrivati Mariacher, Manolo e tutti gli altri.

«Non sempre il risultato finale era quello che cercavo.
Certe volte non eravamo noi che trovavamo le soluzioni, erano le
soluzioni che trovavano noi. Il successo della Mythos è venuto così»Giuliano Jellici

Il metodo è sempre rimasto lo stesso: dopo aver ricevuto le indicazioni io mi prendevo il mio tempo per vedere cosa riuscivo a tirare fuori da quelle proposte partendo dai modelli che avevo già. Non sempre le richieste erano realizzabili, la cosa importante era comprendere l’esigenza, poi le soluzioni venivano in base all’esperienza e ai materiali o alla manualità. Facevo un po’ di esperimenti, con calma. Per cominciare mi facevo dei campioni della mia misura e provavo ad applicare l’idea che avevo in mente. La costruzione delle Kendo ad esempio è nata così, avevo fatto cucire la tomaia a mia moglie. Quando mi sembrava di avere trovato qualcosa che potesse andare bene, chiamavo Alberto o gli arrampicatori con cui collaboravo e gli facevo provare le scarpette. Negli anni Ottanta c’è stata l’esplosione delle scarpette da arrampicata e lì la bravura di Francesco e de La Sportiva è stata quella di ascoltare i migliori climber in circolazione per riuscire a trovare le soluzioni che migliorassero tutte le componenti: tomaia e suola.


Arriva il computer

Negli anni ’90 la grande rivoluzione è stata la progettazione con i computer. Una volta le scarpe evolvevano sulla base dei modelli precedenti. Si facevano principalmente delle modifiche partendo da quello che c’era già, poi ogni tanto si faceva un balzo in avanti grazie ad un’intuizione o a un materiale nuovo, a volte le cose nuove venivano quasi per caso. Stavi cercando di fare una cosa e te ne usciva un’altra, il successo della Mythos ad esempio è arrivato così. Da un certo momento in avanti le scarpe hanno cominciato a nascere con i computer, è un modo diverso di progettare e di pensare ai prodotti. Si parte dalle caratteristiche che si vogliono integrare nella scarpa e dalle richieste del product manager e del mercato, invece che dall’esperienza dell’artigiano. Non ci si affidava più soltanto alla sua sensibilità ma soprattutto al disegno, in quel modo era anche più facile far convergere nei progetti le idee di un intero gruppo di lavoro. Quello è stato un passaggio cruciale, un’inversione del procedimento: il progetto e i disegni fatti al computer stabilivano le caratteristiche del prodotto, l’artigiano in laboratorio doveva mettere a punto le soluzioni costruttive e industrializzarle.

La rivoluzione degli scarponi da alpinismo

All’inzio degli anni Novanta la storia delle scarpette da arrampicata che avevano caratterizzato il decennio precedente era destinata a ripetersi nel campo dell’alpinismo. Il mercato chiedeva uno scarpone intermedio, con più mobilità della caviglia, che si posizionasse a metà strada tra i modelli da arrampicata e quelli pesanti da montagna, a quell’epoca andavano per la maggiore quelli con lo scafo in plastica. Le capacità degli alpinisti grazie al progresso indotto dalla arrampicata sportiva avevano fatto un balzo in avanti e serviva una scarpa da alpinismo con cui si potesse arrampicare sul terreno tecnico e su roccia ma anche andare su ghiaccio o misto indossando i ramponi. È così che sono nati gli scarponi Nepal Top, poi sulla scia di quella rivoluzione sarebbero nati anche altri prodotti come gli scarponi Trango, è a quel punto che entrano in campo i miei figli Enzo e Matteo, iniziando a lavorare in azienda con me. Avevamo pensato da subito a una scarpa diversa da tutto quello che esisteva, tanto per cominciare i pellami erano croste e non più pieno fiore. Le intersuole erano leggere e flessibili. Il bordo in gomma intorno alla scarpa doveva ricordare in qualche modo quello delle Mariacher: questi erano i capisaldi su cui ragionare. Ora le scarpe d’alpinismo sono fatte quasi tutte così, senza cuciture e con il bordone in gomma e la predisposizione per i ramponi ad aggancio rapido perché abbiamo stabilito uno standard, ma allora quelle scarpe esistevano solo nelle nostre idee.

Non è stato né facile né veloce, ma quando siamo riusciti a mettere a punto il Nepal Top e il Trango i risultati furono rivoluzionari. Dopo quegli scarponi tutti hanno iniziato a copiarci e ad imitarci, per la rabbia di Francesco, dato che avevamo speso tantissimo tempo per trovare soluzioni. In realtà noi non avevamo ideato un prodotto ma un’idea di scarpa e un tipo di utilizzo. Le aziende concorrenti prendevano il nostro scarpone, lo segavano in due per vedere cosa c’era dentro e come era costruito e poi lo rifacevano a modo loro. Un po’ ci dispiaceva ma questo voleva anche dire che la concorrenza stava spingendo il mercato verso le nostre scelte e verso le nostre soluzioni, questo significava che eravamo in vantaggio con le idee e con la tecnologia e in un certo senso quella era la garanzia che grazie alle nostre innovazioni saremmo rimasti in vantaggio ancora per un bel po’.


Al lavoro per Francesco

Mi piaceva lavorare per Francesco, perché mi lasciava spazio. Mi dava libertà e fiducia, era sempre interessato a quello che facevo e a come lo facevo ma allo stesso tempo avevo carta bianca, senza assilli o fretta. Mi lasciava lavorare e lasciava che arrivassi un po’ alla volta alle soluzioni e questo mi ha permesso di sentire questo lavoro come qualcosa di mio. Era un lavoro, certo, ma anche una passione. La mia soddisfazione nel lavoro diventava la soddisfazione dell’azienda, la nostra soddisfazione, era una gioia condivisa e questo era motivo di orgoglio per me. Questo valeva sia per la costruzione di scarponi e scarpette ma anche per la creazione di macchinari che servivano a produrre le nostre scarpe. Le innovazioni che sono state introdotte da La Sportiva non riguardano solo i prodotti: non abbiamo inventato solamente delle tipologie di scarpe, abbiamo inventato anche dei macchinari per costruirle che oggi usa anche la nostra concorrenza.


Inevitabile innovazione

Fino ad un certo punto, fino all’arrivo dei miei figli in azienda alla fine degli anni ‘90, ho lavoravo con la convinzione che certe soluzioni o certi macchinari dovessero durare nel tempo, per sempre. Lo stesso pensavo delle scarpe che cercavo di sviluppare e di produrre. Poi ho capito che niente è per sempre e che la specializzazione, l’evoluzione dell’alpinismo in nuove specializzazioni chiede sempre prodotti nuovi. Il mercato e la tecnologia vanno avanti e sono veloci, bisogna essere sempre pronti a qualcosa di successivo. Anche se ci sembra che tutto possa funzionare bene ancora per chissà quanti anni, bisogna sempre pensare a qualcosa di nuovo. Innovare è questo: cercare nuove soluzioni, anche quando sembra di non averne bisogno.

CAPOLAVORO


La scarpa Mythos è il modello di scarpetta d’arrampicata più venduto al mondo, sintesi di comfort, tecnica e innovazione ed è un capolavoro nato dal genio di Giuliano Jellici. Ad un nuovo concetto di scarpa con una nuova forma e un nuovo sistema di allacciatura brevettato si abbinava, in continuità con il passato, il colore viola delle mitiche scarpette Mariacher