Lo scotch che tiene assieme una valle
Per chi è nato e cresciuto in una piccola realtà di montagna come la Val di Fiemme, la presenza di La Sportiva è sempre stata forte e percepibile, non solo per gli amanti della montagna ma per tutti i valligiani.
testo di Luca Mich
Il mio primo ricordo dell’azienda, sembrerà strano, è lo scotch: questo nastro adesivo, enorme per un bambino di 10 anni, larghissimo, che apparentemente poteva avvolgere tutto quello che lo circondava, abbracciando vari contesti. Gli scatoloni, in cui mia mamma riponeva i quaderni a fine anno, i parastinchi dei miei compagni di hockey tenuti sopra o sotto le calze ma sempre con quel logo blu in campo bianco ben visibile, che anni dopo scoprii essere la corporate identity tipica degli anni ’80, o ancora gli specchietti di qualche macchina malconcia, rattoppata con quel nastro, o il fondo di qualche zaino riparato alla buona per tirare ancora fino a fine stagione. Quel nastro era letteralmente ovunque, trascendeva la sua funzione originaria, quella prettamente tecnica di unire i due lembi opposti degli scatoloni che, ad insaputa di molti (perché La Sportiva allora era davvero quello che la letteratura economica definisce un “campione nascosto”) da Tesero prima e Ziano poi, partivano alla volta dei paesi più esotici, luoghi che un bambino di 10 anni cresciuto tra Tesero, Piera e Panchià, non poteva nemmeno immaginarsi.
Era pure il compagno di giochi in avvincenti partite di street hockey improvvisate tra amici, quando al posto del disco in (potenzialmente mortale) gomma vulcanizzata, era decisamente più saggio optare per un sano blocco di scotch compresso e modellato a forma di pallina, preservando di conseguenza la salute degli amici e quella di portoni e finestre utilizzati regolarmente come porta. Si giocava spesso a pochi metri dalla fabbrica, addirittura nel piazzale stesso dello stabilimento, dove ogni tanto passavano dei bilici enormi per prelevare qualche decina di scatoloni, belli pieni di scotch pure loro.
Che poi cosa ci facevano lì tutti quei camion non l’ho mai capito fino all’età adulta: per me La Sportiva era l’azienda della porta accanto, quella che aveva dei portoni enormi su cui tirare le mie cannonate con gli amici, quella in cui ogni tanto mio padre mi portava per comprare un paio di scarponcini da trekking, che poi vai a sapere se li fanno veramente loro o qualcun altro. Cioè mica puoi produrre qualcosa del genere a Piera di Tesero no? La realtà era lontana per quel bambino che mai avrebbe pensato un giorno di lavorarci là dentro, e di contribuire nel suo piccolo alla riconoscibilità mondiale di quel marchio. Ma non è tutto chiaro fin dall’inizio e la sceneggiatura si scrive solo vivendo. Lo sapeva anche quel signore con il sigaro che ogni tanto usciva a fumare ed a guardare i suoi nipoti ammaccare le porte sul retro del suo stabilimento. Ogni tanto lo sentivamo borbottare ma sempre in modo paternalistico e mai arrogante. Anni dopo quel signore avrebbe messo la firma sulla mia tesi universitaria ed avrebbe firmato i permessi per recarmi in facoltà a discutere del caso de La Sportiva, un campione nascosto tra le montagne, in un mercato di nicchia. Era evidente che quel nastro biancoblu aveva unito più di un mondo e più di una generazione. In qualche modo la sua colla non si era mai staccata ed il legame che aveva creato era ben più che metaforico. E così è stato per molte altre persone che negli anni ho conosciuto dentro e fuori dall’azienda perché quel marchio lì, con la montagna e con quell’aggettivo così femminile e familiare, in qualche modo ti rappresenta, o quantomeno rappresenta un luogo di incontri, contaminazioni e costruzione di un’alternativa importante al solito destino artigiano e turistico che offre la nostra Valle. La Sportiva è una finestra sul mondo esterno, un veicolo di contaminazione e rigenerazione in tutto e per tutto legato al luogo in cui si trova.
«Domaneghe al Lorenzo se el te da valghe da far» dicevano spesso i padri ai propri figli con l’avvicinarsi dell’estate, chiedi se c’è un lavoro per te, e che poi ci fosse o meno non era importante di per sé, a contare era la possibilità di pensare in grande, per quanto la portata della cosa non fosse ancora pienamente compresa a molti paesani.
E in questi anni in grande abbiamo pensato in tanti: i cognomi che si leggono sui 300 cartellini oggi sono Jellici, Piazzi, Vinante, Varesco, Mich, Delladio, Dondio... mentre è lecito e più che comprensibile che il climber americano o il brand lover giapponese pensi magari a ben più altisonanti Johnson, Miller o ad altri nomi più intriganti.
Non è un fatto di campanilismo, per niente. È un dato di fatto, è il significato di localizzazione, ne è l’essenza ed il lascito più importante per un’azienda che ha oggi una responsabilità sociale non da poco.
Questi nomi come quelli di molti altri, anche provenienti da fuori valle, sono cresciuti con l’azienda, dando vita ad un organismo, un ecosistema, che si nutre di forza lavoro ed idee locali per affacciarsi sul mercato internazionale, senza temere rivali, facendo le cose in maniera sincera ed onesta, tracciando la propria via senza imitazioni, ma senza mai chiudersi, bensì restando sempre aperto alle contaminazioni. E prove ce ne sono parecchie.
Sono entrato in La Sportiva nel 2006, il marketing allora era sinonimo di pubblicità su qualche giornale specialistico, ora siamo regolarmente su magazine e quotidiani nazionali, non esistevano i social media ma l’azienda ha aperto per prima un profilo su Myspace nel 2007 ascoltando uno sbarbatello appena arrivato dall’università. Facebook, Twitter, YouTube e le sue produzioni video, sono state una piacevole e rapida conseguenza. Le sponsorizzazioni erano locali e gestite cautamente, ora siamo partner di eventi internazionali che richiamano migliaia di appassionati. La vendita on-line già era nell’aria ma non c’era conoscenza dello strumento: pochi anni dopo parole come branding, brand journalism ed edutaiment sono entrate nel DNA La Sportiva e sono valse riconoscimenti quali il Best Digital Practice Award per la comunicazione digitale in Italia. «O esploriamo nuovi territori, o ci estingueremo», diceva Buzz Aldrin, secondo uomo ad aver messo piede sulla Luna. E così è stato e continua ad essere per La Sportiva, un’azienda fatta da persone accomunate dalla voglia di andare oltre i limiti apparentemente imposti da confini geografici, mentalità montanara e comune pensare. Qui c’è gente che corre verso il futuro, che si arrampica oltre le difficoltà, che sa immaginare il domani senza tradire l’oggi, che ha trasformato, piano piano e non senza resistenze, il pensiero verticale in pensiero laterale.
Il colore dello scotch, così come l’identità aziendale, nel frattempo è cambiato anche se è sempre il nastro a tenere assieme gli scatoloni che girano in più di 70 Paesi al mondo. Il blu in campo bianco ha lasciato spazio ad un ormai iconico giallo/nero bramato da molti appassionati di montagna in tutto il mondo. Quel signore con il sigaro ha lasciato spazio a figli e nipoti. Quel bambino che giocava a pochi passi da quello stabilimento così discreto, ora scrive le parole con cui quell’azienda si presenta al mondo. Nel frattempo c’è chi indossa un prodotto La Sportiva in città, sul tram, su una metro. C’è chi lo fa a Tokyo, chi a New York, chi a Trento. C’è persino chi non conosce il marchio per le sue celeberrime scarpette d’arrampicata, ma per quelle da trail running, o per le sue giacche così stilose e termiche.
Se non sono nuovi territori questi, non so cos’altro avesse in mente Buzz.