L'arte di muoversi
Liberi

Quando Alex Honnold è arrivato allo stabilimento La Sportiva a Ziano di Fiemme era in ritardo di un’ora, aveva una faccia stanca ed era un po’ frastornato.
Forse il jet-lag. O forse guidare su una strada italiana, se sei abituato a guidare negli Stati Uniti, è una cosa impegnativa. Anche se sei uno in grado di scalare Freerider su El Capitan da solo e senza corda.

testo di Emilio Previtali

«Scusatemi, ma non sono abituato alle strade italiane, sono strettissime e la gente guida veloce. È pericoloso. E poi non ci sono le marce automatiche e io alle marce manuali non sono abituato!»


Pericoloso? Va bè.


Alex è entrato nella hall dell’azienda ed è stato accolto con emozione ed entusiasmo, c’è stato un giro di presentazioni e di strette di mano e alla fine anche un po’ di genuino imbarazzo. Tutti erano contenti che fosse lì. Che si fa adesso con Honnold? Nella hall di ingresso de La Sportiva su otto pannelli sono riassunti novanta anni di lavoro, di passione, di montagna, di artigianato, Alex curioso ha voluto dargli un’occhiata. Nel caso non ci aveste mai fatto caso il cuore della parola artigianato è arte. L’Italia è il paese dell’arte. Fare le scarpe da montagna è qualcosa che ha a che fare con l’arte, se non lo fosse le scarpe da montagna le farebbero in qualunque parte del mondo, invece le fanno quasi tutte qui, in questa porzione ristretta di Nord-Italia. È stato proposto ad Honnold un giro di visita alle linee di produzione e lui si è subito dimostrato entusiasta, dopo un caffè alla macchinetta si è ripreso dal jet-lag e dallo shock di avere guidato sulla statale della Val di Fiemme. Che poi detto tra noi, non è mica poi così stretta la strada della Val di Fiemme. Honnold ha detto di non avere mai visitato una fabbrica di calzature prima di allora e di essere curioso di vedere.


«I’m very curious…»


Lo spazio che separa la hall d’ingresso dell’azienda e il reparto produttivo è di soltanto qualche centimetro, lo spessore di un muro. Una ventina di centimetri, apri la porta tagliafuoco e sei dentro, nel cuore pulsante dello stabilimento. Appena entri c’è quell’aroma di colla nell’aria e il rumore degli aspiratori e dei macchinari, il ronzio delle macchine da cucire e il rumore più secco e cadenzato delle trance. È una specie di orchestra che suona la sua musica andando a tempo, il ritmo è quello della linea di produzione. Honnold insieme a tutti gli altri che lo accompagnano cammina per i corridoi che costeggiano lo stabilimento e molte teste degli operai si girano per
guardare. Alle pareti della fabbrica stanno appesi poster di grandi campioni dell’arrampicata degli anni ’80 e ‘90 che hanno fatto la storia de La Sportiva: Stefan Glowacz, Didier Raboutou, Robyn Erbesfield, François Legrand, Ron Kauk, Manolo, il poster di Honnold non c’è. Per ora. Ci sono sguardi e volti su cui si dipinge una domanda:
ma è Alex Honnold, quello? La sua recente salita in solitaria su El Cap lo ha reso un volto celebre e riconoscibile anche in Europa.


«Quell’americano che ha fatto quella via mostruosa su
El Capitan senza corda, ti ricordi come si chiama?».

«La via? Freerider!».

«Non la via, lui! Come si chiama?».

«Alex Honnold».

«Honnold!».

«Non è per caso quello lì?».


La voce che Honnold è in visita nello stabilimento si sparge rapidamente nel reparto di produzione e gli operai che lo vedono, si danno di gomito.

«C’è Alex Honnold!».

«Honnold?».

«Honnold!».

Altri invece lanciano solo un’occhiata veloce, sono impegnati alla linea di produzione e non è quello il momento di distrarsi.


Alex Honnold in visita nella stanza/museo durante l’intervista, dove ha potuto vedere tutte le scarpe prodotte da La Sportiva dal 1928 a oggi

La storia industriale de La Sportiva è la storia stessa dell’arrampicare e dell’andare in montagna, a pensarci bene l’unica cosa che si interpone tra mani e piedi di un arrampicatore mentre scala su una parete di roccia, è una scarpetta. Pochi millimetri di materia a separare dalla roccia una porzione di corpo umano e l’universo delle percezioni neuro-sensoriali. Roccia. Tomaia, pelle, stringhe, gomma, scarpa. Piede. Gamba, cuore, cervello. Alex Honnold è sbalordito dalla linea di produzione e dal vedere tutta quella gente al lavoro, tutti quei passaggi, a quanto pare non aveva idea del fatto che si trattasse di un’operazione così complessa, artigianale, in gran parte costituita da azioni manuali.


«Non mi ero mai posto la domanda, in effetti. Pensavo che fosse un processo industriale, una cosa più automatizzata, tipo: c’è una macchina che fa queste scarpe, ci metti il materiale dentro, la colla, la gomma, schiacci un tasto e boom, ecco la scarpa. Non proprio così ma insomma: non mi ero reso conto. La scarpetta viene fatta praticamente a mano, una alla volta, un pezzo alla volta. È pazzesco».


Gli uomini La Sportiva che lo accompagnano e gli operai ascoltano Alex un po’ sorpresi e divertiti ma ci sta, se non ci hai mai messo piede in una fabbrica artigianale di scarpe, se non ci hai mai pensato, il reparto di produzione di un calzaturificio è un luogo sorprendente. Si è portati a considerare questo processo una questione industriale e di macchine o di attrezzature: è vero, ma solo in parte. Si tratta principalmente di artigianalità e di manualità. Di sensibilità e occhio. Di know-how e di esperienza. Insomma di tutte quelle cose che messe insieme fanno sì che un processo produttivo abbia a che fare anche con l’arte e con l’artigianato. Honnold fa un sacco di domande, si informa sui quantitativi di produzione, su quante scarpe vengono fuori dalla linea di montaggio ogni giorno e chiede se si può vedere la sua scarpa preferita in lavorazione, la TC Pro. È il suo giorno fortunato, la TC Pro è proprio la scarpa su cui una delle linee sta lavorando, l’altra linea invece, quella più a portata di mano, ha in produzione una scarpa da altissima quota, la Olympus Mons Evo.


«L’altissima quota non è mica roba per me…» dice Honnold mentre appoggia su un carrello una Olympus appena finita di produrre, mentre si sposta verso l’altra linea, quella delle TC Pro.


È un colpo al cuore per Alex scoprire che la sua scarpa preferita, quella con cui ha salito anche Freerider in Europa, non è un top-sellers. Vende di più negli Stati Uniti e nei paesi dove si arrampica prevalentemente su granito o in fessura. Tra quelle più vendute in Europa al momento ci sono Katana e Solution, Honnold sembra al tempo stesso convinto e deluso da quella notizia. È quello che la logica suggerisce in effetti, anche se non è quello che istintivamente lui si immaginava.


Dopo qualche altra tappa e qualche fotografia nel reparto produzione, dopo avere visto le forme e il processo di assemblaggio di scarpette d’arrampicata e degli scarponi d’alta quota, Honnold e il gruppetto di persone di La Sportiva che lo accompagna raggiungono finalmente la postazione di rifinitura della scarpa d’arrampicata. Stare a vedere le macchine e gli operai al lavoro, seguire i passaggi e comprenderne le fasi e la successione, è qualcosa che ipnotizza. Incanta. Verrebbe voglia di stare lì a guardare per ore, cullati dal suono delle macchine, dall’odore di colla e dalla precisione con cui le mani degli operai eseguono i loro compiti. La fase della cardatura è quell’operazione in cui la suola che è stata incollata e pressata sulla parte inferiore della tomaia deve essere fresata e rifinita con precisione assoluta per creare il bordo laterale della suola della scarpa. Anna Scarian, che è anche una climber, è all’opera e mostra ad Alex Honnold i passaggi della lavorazione. È un momento decisivo per la creazione della scarpa, è il momento esatto in cui la suola in gomma da oggetto grezzo diventa attrezzo sportivo di alta qualità.

La precisione con cui la scarpa viene rifinita e cardata definisce anche le qualità tecniche e le capacità di performance della intera calzatura. Il bordo laterale della suola deve prendere una forma, un angolo e una curvatura precisa. Deve essere perfetta e funzionare in sintonia con tutte le altre parti della scarpa, è su quella porzione di gomma premuta sulla roccia che finisce tutto il peso del corpo di un arrampicatore. È esattamente in quei pochi millimetri di connessione tra corpo umano e roccia che, nello sport dell’arrampicata ,si gioca la progressione delle difficoltà e la possibilità di rimanere aggrappati alla roccia e di vincere la gravità. A Honnold esattamente in quel momento, mentre osserva Anna al lavoro, viene in mente di quel traverso su quegli svasi lisci che c’è su Freerider. Ne racconta poco dopo, tentando di mettere a fuoco il pensiero.



«In una solitaria i dettagli sono tutto. Mani e piedi. Per piedi intendo dire: scarpe. Per le mani a volte uso una colla che asciuga la pelle delle dita che non deve essere né troppo secca, né troppo umida. Deve essere giusta. Se la pelle è troppo secca, non puoi fidarti degli appigli perché non li sento bene e sei costretto a tirare con le braccia più del necessario, sprechi un sacco di energie, non va bene. Se la pelle è troppo umida invece, se suda e scivola, la magnesite non basta. Non riesci a fidarti come dovresti perché hai paura di perdere la presa. La pelle delle dita deve essere giusta, né troppo secca né troppo umida. Per il bordo e per la suola, per le scarpe e per quello che senti attraverso i piedi, bè, è esattamente lo stesso. Se la scarpetta è troppo nuova e lo spigolo troppo netto e vivo o se la tomaia troppo dura e non si è ancora adattata alla forma del piede, non puoi fidarti. Non ci riesci. Se lo spigolo è troppo usurato e la tomaia troppo morbida invece, se non senti la scarpa perfetta sul piede, non riesci a fidarti. Il giorno prima di Freerider sono andato a provare le mie TC Pro, un paio che avevo preparato apposta per la salita. Non erano nuove e non erano troppo usate. Avevo bisogno di una scarpa che mi consentisse di sentirmi bene sui traversi e sulle sezioni in placca. In fessura puoi incastrare mani e piedi ed è meno difficile sentirti in difficoltà, ma in placca, dove mani e piedi possono soltanto restare appoggiati e premuti sulla roccia, la scarpa deve essere perfetta. Quando arrampichi da solo e senza corda, tutto deve essere perfetto. Giusto. Se arrampichi con la corda può essere sufficiente che tutto questo, la pelle delle dita e le scarpe siano soltanto ok ma se arrampichi slegato o se sei veramente al tuo limite, ok non è abbastanza. Non saprei spiegare cosa vuole dire perfetto, è una cosa che non si può spiegare a parole, non c’è il modo di misurare la perfezione, è il corpo che te lo spiega. Ogni climber capisce esattamente cosa intendo. Il corpo sente delle cose, piede e cervello dialogano tra loro, quando è tutto sotto controllo, quando l’appoggio e il grip sono quelli che devono essere, ci si può concentrare sul movimento successivo e si passa al movimento seguente, la scalata è questo: è pensare ma con il corpo».


Le TC Pro si allineano una dopo l’altra su un carrello, mano a mano che vengono prodotte. Il bordo della scarpa a guardarlo è perfetto, netto, quasi tagliente. È giusto, proprio come deve essere. Come i climber hanno bisogno che sia. Non sta scritto da nessuna parte come deve essere, il bordo o la forma della scarpetta. Non c’è una macchina o un robot a guidare il movimento delle mani degli operai, ci sono degli esseri umani con la loro sensibilità e la propria arte. In tutta l’azienda gli addetti alla cardatura sono soltanto sei. Produrre una scarpa è un lavoro di squadra, ciascuno ha il proprio compito da svolgere. La linea di produzione è un essere gigantesco e vivo e continua a sfornare scarpe, a pulsare al ritmo degli operai al lavoro, al suono delle macchine da cucire e al rumore dei colpi delle trance che diffondono il loro suono nell’aria. Dopo le parole di Honnold per qualche secondo nessuno ha il coraggio di dire niente, restiamo tutti in silenzio. In quei minuti del suo racconto è come se fossimo stati, lì su quel traverso difficile insieme a lui, a qualche centinaio di metri d’altezza su Freerider e sulla parete de El Capitan.


In fondo l’idea di cordata, è anche questo.

TC-PRO


Alex Honnold arrampica principalmente con le TC-Pro, la scarpa per alta difficoltà su granito messa a punto da Tommy Caldwell


«È esattamente in quei pochi millimetri di connessione tra corpo umano e roccia che nell’arrampicata si gioca la possibilità di rimanere aggrappati alla roccia. In una solitaria i dettagli sono tutto, mani e piedi. Per mani intendo dire: pelle delle dita. Per piedi intendo dire: scarpe»


Alex Honnold