Un'azienda
in cui lavorare

Dopo dieci anni di vita da Guida alpina, il primo contratto di lavoro con La Sportiva. Una decisione difficile e facile allo stesso tempo.

testo di Pietro Dal Prà


Novant’anni, un tempo lunghissimo, non riesco nemmeno a misurarlo. Eppure da oltre un terzo di questo tempo sono legato a La Sportiva, questi trenta anni ce li ho tutti nelle mani. E nei piedi. Forza dell’arrampicata che ha fatto da rete, da trama di tessuto su cui sono rimasti aggrappati i ricordi e le emozioni di una vita che ha sempre teso alla verticalità.


Le emozioni. È alto il livello su cui si assesta e si abitua l’anima di uno scalatore. Fortunatamente quelle profonde e contrastanti che si sono impiastrate nella mia trama non sono state unidirezionali. Voltandomi indietro rivedo uno scalatore in cui il sentire è stato certamente formato dalla dimensione di solitudine delle montagne e da un’idea di scalata basata su sentimenti antichi. Profondo è stato anche il piacere della conoscenza, della condivisione, dell’empatia goduta nei mondi umani della montagna. Ho avuto il privilegio di scoprire la roccia all’inizio degli anni Ottanta, un periodo in cui la scalata scendeva dalle montagne alle falesie e si alimentava del suo stesso entusiasmo, andando verso dimensioni ancora sconosciute. Gli scalatori famosi erano pochissimi, persone dal carattere e dallo spessore importante, il più delle volte circondate da un alone di mito e di mistero.


Dopo pochissimi giorni che provavo ad arrampicare ricordo che decisi seriamente che nella vita avrei fatto l’arrampicatore, il fuoco che mi bruciava dentro era incontenibile. Era forte tanto quanto il piacere di essere lassù e quanto la voglia di diventare qualcuno. Nel 1987 firmai il mio primo contratto di sponsorizzazione, era con La Sportiva e il valore delle tre paia di scarpette gratis andava ben oltre il loro prezzo in lire. Voleva dire essere sponsorizzati e per di più dalla ditta in cui c’era tutto il gruppo dei migliori. Avevo genitori tanto severi durante il periodo scolastico quanto permissivi durante l’estate: se i voti erano stati buoni per lasciarmi andare ad arrampicare era sufficiente qualche referenza sugli adulti con cui giravo. Durante le vacanze ero abbastanza libero di godermi la mia dimensione.



Pietro Dal Prà


«Nel 1987 firmai il mio primo contratto di sponsorizzazione, con La Sportiva, non c’entrava il valore delle tre paia di scarpette in lire. Voleva dire essere nel gruppo dei migliori»

Pietro Dal Prà quindicenne su 'El Somaro' a Lumignano, 1985

Me lo ricordo come fosse ora. Era il luglio dell’88 e dovevo raggiungere alcuni amici romani alle gare di Bardonecchia. Da lì saremmo partiti in autostop per il Verdon, la Mecca di allora. Si presentò un’occasione unica, il furgone de La Sportiva andava proprio a Bardonecchia, dove l’azienda incontrava molti dei suoi sponsorizzati. A guidare quel furgone era il titolare, che per me era già Lorenzo, senza un cognome. Forse la sua posizione ispirava fiducia ai miei genitori e mia madre mi portò in auto al casello dell’autostrada di Verona Sud. Fremevo nel vedere arrivare quel furgone azzurro con la grande scritta La Sportiva sopra e sorridevo mentre la mamma mi consegnava ad un imprenditore dall’aspetto forse un po’ anomalo per lei, un ragazzone sorridente e gioviale in pantaloncini corti e canottiera gialla.


Il codice della strada negli anni Ottanta si aggiustava con flessibilità a diverse esigenze personali. Al sedile di guida Lorenzo e in quello del passeggero Luisa Iovane, altri posti a sedere non ce n’erano. Così per il bòcia – cioè, io - non rimaneva che stare nel retro. Stavo sdraiato sopra a scatole di scarpette su cui c’erano scritti i nomi di quei miti che tanto mi facevano sognare: Glowacz, Raboutou, Cortijo e altri ancora. Lorenzo mi diceva - come fosse una cosa normale - che non erano scarpette di produzione ma prototipi di nuovi modelli che dovevano essere testati. Meraviglia. In quel momento la mia scomoda sistemazione nel retro del furgone era ben oltre il massimo che avevo osato immaginare.

Sbirciavo dentro le scatole, vedevo e toccavo scarpette con colori completamente nuovi rispetto a quelli che si erano visti sulle montagne fino a poco tempo prima. Quelle Mega fucsia e turchese si accendevano ancor di più, in tono con il mio umore. E quel primo fascione in gomma tirato intorno a tutta una scarpetta che stava diventando la Kendo mi riempiva di stupore e mi faceva sognare un futuro tutto da divorare. Ogni tanto mi affacciavo in cabina e ascoltavo Lorenzo parlare di scarpe, di scalatori, di nuove manifestazioni, di idee per il futuro. Nel suo tono c’era una familiarità che mi affascinava. Sognavo quel mondo e me ne sentivo già parte attiva, anche se ero ancora nella mia dolorosa prigione-scuola. Tutti quei discorsi erano vento sul fuoco. E con la persona che li faceva sentivo un misto di timore reverenziale e di una certa empatia.


Arrivati a Bardonecchia, mentre osservavo il bel rapporto che aveva Lorenzo con i ‘suoi’ climber e con che passione consegnava loro le scarpette, non potevo immaginare che una ventina d’anni dopo sarei stato io a guidare in tante occasioni quei furgoni e a relazionarmi con i nostri atleti. Nei tempi a venire mi sarei creato un’identità più precisa che non aveva più bisogno di miti, anzi li ridimensionava del tutto e maturai un atteggiamento un po’ refrattario nei confronti delle aziende di settore.Di animo romantico, non mi piaceva l’idea di essere uno sponsorizzato, per il semplice fatto che temevo in qualche modo di sporcare il mio amore per l’arrampicare e per le montagne. Non volevo nessun tipo di pressione esterna, anche inconsapevole, che potesse anche solo minimamente intaccare la mia libertà di pensiero e la dimensione decisamente intima del mio arrampicare. Per questo avevo scelto di fare la Guida alpina e dopo anni di lavoro in un gruppo affiatato mi era diventato chiaro che in ambito professionale potevo muovermi soltanto in due modi: o da solo, o in una squadra in cui sentivo forte l’umanità, la familiarità e la possibilità di condividere una certa visione del mondo.



Un giorno squillò il telefono, sullo schermo si accese la scritta Lorenzo La Sportiva e sentii il solito buon atteggiamento, a cui quella volta si aggiungeva un tono ufficiale.Mi disse che aveva pensato a me come la persona giusta per mantenere e curare sotto tutti i punti di vista i rapporti fra il team degli atleti e l’azienda. Insomma, volevo un lavoro e non solo una sponsorizzazione? Quella era l’occasione. «Se vuoi il posto c’è e mi farebbe piacere fossi tu a prenderlo, pensaci una settimana e poi sappimi dire».

Dieci anni di vita da Guida alpina mi avevano ammorbidito e fatto giungere a più miti consigli. Accettai. Così firmai il mio primo contratto di lavoro in azienda e fu Lorenzo che mi affiancò nel primo periodo per insegnarmi, o meglio trasmettermi, il senso del mio ruolo. Così in Val di Fiemme, per la prima volta caricai da solo il furgone La Sportiva per andare come sponsor ufficiale al Rock Master. Lorenzo mi raggiunse nello stand già montato e pronto, con lui avrei condiviso per due giorni quello spazio. Ero inquieto, non tanto per la sua presenza ma per la mia, perché avevo ancora molti dubbi sulla mia effettiva capacità di resistere all’interno di un’azienda, viziato com’ero da tempi piuttosto liberi ed anarchici.

Quella volta ad Arco partecipava ad uno dei suoi ultimi Rock Master un mio amico di tanta arrampicata, il Canon Luca Zardini, che battendosi per anni da leone anche con atleti ormai ben più giovani di lui era diventato uno dei beniamini della manifestazione. La sua fu una prova fantastica, per lui e per tutto il pubblico. Sembrava che si avvertisse il suo sforzo non solo del momento, ma anche quello di una vita. Ci fu un tifo senza pari per lui e quando cadde, tutti esplosero in piedi, pelle d’oca e urla ancora più forti. Mentre Luca veniva calato e salutava la folla, per caso mi girai leggermente di lato verso Lorenzo. Mentre finiva di sgolarsi, vidi che abbassava gli occhiali da sole sugli occhi in lacrime.

Sì, io in quell’azienda ci volevo lavorare.