Un segreto industriale

Tutto è iniziato con le gomme usate della Alfa 33 Sport Prototipo, alla pista di collaudo Alfa Romeo di Balocco, in Piemonte.

di Lorenzo Delladio

Per via della mia passione per i rally e per le competizioni in automobile ero in contatto con un tecnico dell’Alfa Romeo ed ero venuto a sapere che alla pista di collaudo di Balocco c’era un deposito dove erano accatastati gli pneumatici slick già usati e non più utilizzabili per le gare. Le gomme erano quelle che montavano le Alfa 33 Sport, auto che correvano nel campionato del mondo prototipi e nel campionato Can Am americano. Mi era venuta l’idea di chiedere se si potevano avere alcune di queste gomme usate, per verificare se la mescola del battistrada poteva andare bene come suola delle nostre scarpette da arrampicata, con l’obiettivo di migliorarne il grip. Una mattina della primavera del 1979, dopo averne parlato con mio padre Francesco parto da Tesero alla volta di Balocco. Le strade non erano quelle di oggi e ricordo un viaggio lunghissimo durato più di sei ore a bordo del nostro furgoncino Fiat 238. Finalmente incontro il mio contatto ed assieme entriamo nel deposito. Riempio il furgoncino con tutte le gomme che riesco a farci stare, saranno state una ventina. Il viaggi di ritorno è più piacevole e sembra molto più breve, nel mangianastri gira una cassetta dei Rolling Stones, dall’unico altoparlante la voce roca di Mike Jagger canta a tutto volume. Non vedo l’ora di arrivare e mettermi al lavoro. Sono consapevole di avere con me qualcosa di assolutamente innovativo, qualcosa che ci permetterà di creare un prodotto rivoluzionario.


Il primo problema che ci si presenta quando nel nostro laboratorio proviamo a prelevare il battistrada dalle gomme è quello di eliminare dal loro interno i fili metallici di rinforzo per non rovinare la mescola. È un lavoraccio. Dobbiamo tagliare a pezzi ogni pneumatico segando tutti i cavi metallici e poi con quello che ci rimane del battistrada ritagliare le suole. Spendiamo un sacco di tempo per fare quel lavoro, però le suole ricavate sono le migliori che abbiamo mai avuto. Di gran lunga, le migliori. Mettiamo a punto un metodo per non sprecare troppo tempo in quel lavoro di recupero, prepariamo delle fustelle che servono a ritagliare le suole con una trancia, in modo che poi possano essere incollate sotto alle scarpe dei nostri atleti. È ovvio che un procedimento così complesso si giustifica soltanto per creare un tipo di prodotto mai realizzato prima, destinato agli arrampicatori di punta del nostro team.


TEMPERATURA OTTIMALE

Il problema che continuavamo ad avere era che la mescola per essere al massimo della sua efficienza e della aderenza doveva raggiungere una temperatura ottimale di esercizio e quindi andava prerscaldata. Per gli pneumatici delle macchine da corsa quello non era un problema perché erano proprio la velocità in curva, il rotolamento e l’attrito stesso dell’avanzamento della ruota che permettevano alla mescola di scaldarsi. Per l’arrampicata su roccia la faccenda era ben più complessa. In questo sport non si chiede alle suole di funzionare in condizioni di attrito dinamico ma piuttosto in condizioni di attrito statico. Per questa ragione, si raggiungeva il massimo grado di efficienza solo con l’avvertenza prima di usarle di tenerle parecchio tempo esposte al sole. Bisognava anche avere cura di mantenerle pulite, sgrassate e prima di arrampicare sfregarne con le mani la superficie fino a farla diventare bollente al tatto. A quel punto la mescola diventava talmente morbida che le suole si incollavano tra loro. Così facendo le performance erano eccezionali, di un livello nettamente superiore rispetto a quelle che esistevano all’epoca, almeno fino al momento in cui, dopo qualche minuto, le suole tornavano alla temperatura ambiente.


TOMAIA ACCOPPIATA

A quel punto del nostro sviluppo avevamo già trovato le soluzioni giuste per la tomaia in pelle, che accoppiavamo con la fodera di cotone riuscendo così a farla modellare perfettamente sulla forma del piede, rendendola allo stesso tempo molto performante e comoda. La spagnola Boreal produceva una scarpa con tomaia in pelle sfoderata piuttosto scomoda e dolorosa che con il tempo tendeva ad allargarsi e ad allungarsi di misura piuttosto rapidamente, perdendo la sua forma originaria. Le francesi EB avevano una tomaia in tessuto di cotone, erano precise nella calzata ma facevano un male cane. La pelle accoppiata al tessuto di cotone consentiva invece alla nostra scarpetta di essere più comoda, di essere sempre precisa intorno al piede e di conservare la sua forma nel tempo, anche dopo un uso intenso. Dopo un po’di rodaggio ciascuno calzava ai piedi la sua scarpetta ottimale. Avevamo realizzato un passaggio importantissimo che è a pensarci bene ancora oggi il nostro credo industriale, quello che ci guida tuttora nella innovazione e in ogni decisione da prendere nella messa a punto dei nostri prodotti: trasformare un limite in un’opportunità. Un’altra innovazione riguardava il bordo in gomma della scarpa che si era evoluto con il passare del tempo e dei prototipi e non era più quello dei primi modelli, era diventato più sottile e più fasciante, liscio anziché ruvido e partecipava alla performance in appoggio e in aderenza della scarpetta. Inoltre si rendeva utile con la sua tensione elastica sul tallone per spingere il piede verso l’avanti e a non farlo muovere.


Noi quasi senza accorgercene, gradualmente, avevamo cominciato a chiedere alle calzature di fare qualcosa di diverso e di nuovo rispetto a quello che gli si chiedeva prima: volevamo soprattutto che le scarpe fossero performanti,
non soltanto sicure e robuste. Eravamo passati dallO SCARPONE ALLA SCARPETTA

Slick

L’idea di utilizzare le scarpette a suola liscia 'slick', in una pubblicità
La Sportiva del 1979




Mythos

Nel 1991 nasce la scarpetta diventata simbolo di diverse generazioni di climbers. In occasione del lancio sul mercato, nel mese di settembre appena concluso il Rock Master, gli atleti si riuniscono in un meeting in Val di Fiemme

Mariacher

La prima versione della scarpa Mariacher non beneficia ancora del bordone in gomma che ha lo scopo di aumentare la tenuta del piede e la pressione all’interno della scarpa


DA SCARPONE A SCARPETTA SPORTIVA

Era stato un passaggio importante quello di realizzare una scarpetta leggera e foderata specifica per l’arrampicata su roccia. Fino a pochi anni prima le scarpe da arrampicata continuavano ad essere considerate una evoluzione o un derivato dello scarpone da montagna e non venivano pensate come un vero e proprio attrezzo sportivo determinante nell’innalzamento del livello tecnico e nel superamento delle difficoltà alpinistiche. Noi a forza di sviluppare e testare prototipi, lo avevamo capito. Alcuni pensavano ancora alle scarpette da arrampicata come ad una possibilità durante alcune fasi delle salite alpinistiche, certi immaginavano un liner interno agli scarponi doppi a cui affidarsi soltanto nel superamento dei tratti più tecnici di arrampicata su roccia durante le salite su grandi pareti. Allora non esisteva ancora l’arrampicata di fondovalle. Quello che si era chiesto fino a poco tempo prima ad una pedula per arrampicare era principalmente una funzione di protezione e di sostegno del piede in appoggio e per raggiungere questo scopo i cardini di ogni progetto erano la robustezza della scarpa e la rigidità dell’intersuola. Per un periodo provammo anche noi a inserire nella scarpa pedula Ghedina un’intersuola in legno di frassino per irrigidirla. Successivamente con il modello Brenta si passò al metallo: per le prime prove ritagliavamo le forme con la trancia a partire dalla lama delle circolari usate in segheria, eravamo alla ricerca di un tipo di acciaio resistente ma allo stesso tempo flessibile e quello delle seghe a nastro faceva proprio al caso nostro. Una scarpa d’arrampicata a quell’epoca doveva soprattutto durare nel tempo ed essere versatile in ogni tipo di condizione e su ogni tipo di terreno. La suola tipica era quella in gomma scolpita, i produttori di quel periodo erano Vibram e Pirelli.


Le scarpette d’arrampicata degli anni ’70 dovevano essere robuste e polivalenti e conservare anche alcune caratteristiche e qualità dello scarpone da alpinismo, per affrontare condizioni e situazioni impreviste tipiche dell’alta montagna. Fino ad allora, escluso lo Yosemite che rappresentava un universo a parte, l’arrampicare significava andare in montagna, non restare a bassa quota. Quella per l’arrampicata era per tradizione una scarpa da mettere ai piedi all’inizio dell’ascensione e da non togliere fino a termine della giornata. Noi quasi senza accorgercene, gradualmente, avevamo cominciato a chiedere alle calzature di fare qualcosa di diverso e di nuovo rispetto a prima: volevamo soprattutto che fossero performanti. Le scarpe dovevano essere leggere, precise e avere più grip, dovevano consentire di arrampicare su roccia in modo moderno, su gradi più difficili a costo anche di sacrificare un po’ della loro durata e di doverle portare nello zaino per l’avvicinamento. Stavamo entrando in una era differente, passando dalla produzione di scarpe da montagna e da alpinismo alle scarpette da arrampicata. Anche l’alpinismo e gli alpinisti stavano vivendo un momento di cambiamento epocale: l’alpinismo e la arrampicata di alta difficoltà cominciavano a non essere più un’unica cosa. Si trattava ormai di due universi separati e si apriva un mercato tutto nuovo da esplorare. Era un’opportunità grandiosa e noi avevamo quasi tutto quello che serviva per essere protagonisti di questo cambiamento.


PRESTAZIONI TOP E STORIA

Con le suole ricavate dagli pneumatici da corsa - anche se era un processo costoso e laborioso - avevamo trovato la soluzione ottimale per le scarpe, almeno per i nostri atleti top ma era chiaro che dovevamo trovare una soluzione definitiva anche per le suole da mettere in commercio e se possibile migliorare le caratteristiche tecniche della gomma. Contemporaneamente a noi, anche altre aziende lavoravano allo sviluppo e alla evoluzione delle scarpette da arrampicata, era un momento di grande fermento. Ai francesi che scalavano già da tempo sui massi di Fontainebleau era stato chiaro molti anni prima che per progredire tecnicamente nelle difficoltà era necessario fare affidamento sulla precisione della scarpa e sulla aderenza della suola, più che sulla rigidità della intersuola. Della robustezza e della rigidità i sassisti di Fontanebleau, non sapevano che farsene. Quello era il dibattito anche in Dolomiti su cui ci si continuava a confrontare.



SCARPA RIGIDA O SCARPA MORBIDA?

A quell’epoca, per quanto riguardava l’arrampicata sulle alte difficoltà c’erano due scuole di pensiero, con cui io mi ero ritrovato ad avere a che fare durante la mia esperienza al Centro Addestramento Alpino della Polizia a Moena, dove avevo svolto il servizio militare. Da una parte c’erano gli istruttori Emiliano Vuerich e Bepi De Franchesch, entrambi esperti e con una formazione alpinistica classica, da lungo tempo collaboratori de La Sportiva che sostenevano che le scarpe dovevano essere precise e a suola rigida, per poter restare con precisione sui piccoli appoggi delle vie di calcare delle Dolomiti e per essere sicure e affidabili in ogni condizione, anche in caso di brutto tempo e sul bagnato. Dall’altra c’erano istruttori più giovani come Comelli che chiedevano una scarpa morbida e flessibile a suola liscia, concepita unicamente per l’arrampicata su roccia. Allora in Italia e più in generale sulle Alpi solo i triestini nelle Alpi Giulie imitando Emilio Comici avevano l’abitudine di usare delle scarpe a suola liscia per l’arrampicata su calcare e Comelli era originario proprio di quella zona. In altre aree, quasi ovunque sulle Alpi, in Dolomiti o al Monte Bianco, a una scarpa si richiedeva di andare bene dall’avvicinamento fino alla camminata sui nevai, passando per l’arrampicata in parete sul terreno tecnico e verticale.


Uniche eccezioni italiane erano la Valle di Mello e la Valle dell’Orco, i luoghi del Nuovo Mattino dove si praticava il free-climbing arrampicando su granito e sulle pareti di fondovalle senza preoccuparsi necessariamente di raggiungere una cima. In questi luoghi trovavano terreno fertile le tecniche e le attrezzature in uso nella Yosemite Valley, scarpette morbide incluse. In mancanza di una suola migliore e in sostituzione della originale in caucciù per le arrampicate sul fondo valle si incollavano artigianalmente sotto a delle scarpe da tennis in tela Superga delle suole in aerlite, un materiale allora utilizzato per la risuolatura degli zoccoli. Le soluzioni artigianali immaginate e sperimentate in Valle di Mello e in Valle dell’Orco prima anticipavano e poi imitavano la scarpa Boreal, che presto sarebbe diventata la scarpa di riferimento della Yosemite Valley e di una generazione di arrampicatori. Almeno fino a quando arrivammo noi, con la nostra scarpetta Mariacher.


GOMMA SPAGNOLA MADE IN ITALY

Quello di cui ci eravamo resi conto era che la nostra scarpa abbinata alla gomma spagnola faceva un balzo di qualità in avanti ed era nettamente più precisa e performante di Boreal, soprattutto sul calcare. Era evidente che dovevamo trovare una soluzione definitiva per le suole delle nostre scarpette. L’idea di testare le suole Boreal sulle scarpe La Sportiva era venuta a Manolo che era riuscito a procurarsi un paio di queste scarpe, all’epoca non ancora in vendita in Italia. Lui e pochi altri tra i nostri atleti avevano testato le nostre scarpette in entrambe le versioni, sia quella con le suole provenienti dai battistrada slick delle gomme da corsa, sia quelle prelevate dalle Boreal con mescola spagnola. Il feedback era che dovevamo assolutamente procurarci e utilizzare quel tipo di suole e poi la nostra scarpetta sarebbe risultata la migliore in assoluto. Quella delle suole prelevate dai battistrada delle gomme da corsa era una soluzione sperimentale e transitoria che ci aveva fatto capire che per far progredire le nostre scarpe e quindi il nostro progetto, era indispensabile trovare un fornitore.



Sempre grazie all’esperienza delle mie gare in auto, ero venuto in contatto con un tecnico della Marangoni di Rovereto, azienda della nostra regione tuttora produttrice di pneumatici per auto e camion. Nei rally utilizzavo le loro gomme ricoperte vulcanizzate, perfette sulla neve e su fondi sterrati. Marangoni disponeva di una tecnologia produttiva che gli consentiva di ricostruire il pneumatico più volte, applicando il battistrada alle carcasse con un processo di vulcanizzazione. Era un procedimento piuttosto economico, a metà strada tra l’industriale e l’artigianale, consentiva di personalizzare gli pneumatici nel disegno del battistrada e nella mescola scelta di volta in volta in funzione delle condizioni del terreno e della gara. Alla Marangoni avevano senz’altro l’esperienza e il know-how necessario per lavorare sulle mescole delle nostre suole. Ero riuscito a incontrare un loro dirigente e a spiegargli la nostra esigenza tecnica e le problematiche con le gomme slick da corsa su cui avevamo già lavorato. A quel punto i nostri prototipi con la mescola spagnola realizzati usando le suole Boreal avevano dimostrato di funzionare perfettamente e andavano industrializzati. Esclusa la possibilità di acquistare le suole da Boreal poiché rappresentava la nostra concorrenza diretta, eravamo quindi prima di tutto alla ricerca di un’azienda partner con cui collaborare per mettere a punto la mescola e produrre la gomma necessaria per le suole delle nostre scarpe, che prevedevamo di vendere in grande quantità. Non ci serviva soltanto un fornitore ma prima di tutto un partner tecnologico. Qualcuno con cui mettere a punto un materiale in Italia non ancora disponibile. In tempi successivi sarebbe arrivata Vibram, debuttando in questo settore. Marangoni accolse la mia richiesta e ci mise a disposizione un chimico molto competente che si fece carico del progetto come una sfida personale poiché era una persona molto motivata e appassionata del proprio lavoro. Fecero tutti i loro studi e le ricerche necessarie, qualche tentativo e poi dopo un po’ di tempo arrivarono con alcuni campioni di suola in gomma di mescola differente, da testare. Dopo molti prototipi riuscimmo a finalizzare una gomma che aveva un livello di performance e di durata paragonabile a quello della gomma cocida spagnola. Bingo!


ARIA INTRAPPOLATA NELLE SUOLE

I parametri su cui aveva lavorato il chimico di Marangoni erano tre: ingredienti della mescola, temperatura e pressione. La ricetta, la composizione e il metodo di lavorazione della gomma erano know-how loro, noi ci occupavamo della scarpetta e avevamo collaborato ai test della mescola coinvolgendo i nostri climber entusiasti e partecipi. Le suole andavano benissimo, le nostre scarpe funzionavano complessivamente molto meglio di quelle della concorrenza. Avevamo un solo problema nella pressatura della gomma in lastre: succedeva che talvolta delle bolle d’aria rimanevano intrappolate nella mescola pressata e raffreddata e quindi nelle suole. Poteva accadere in certi casi che la suola durante la tranciatura o la cardatura o successivamente con l’uso, mostrasse queste imperfezioni che interferivano con la qualità e con le performances del prodotto. Oltre che un problema estetico era un problema di qualità e di durata. Ci ingegnammo per trovare una soluzione e a scovarla fu ancora il tecnico di Marangoni che ebbe l’intuizione di stendere all’interno dello stampo, dove veniva versata la mescola, una serie di fili in cotone con la funzione di risucchiare e guidare l’aria verso l’esterno. In quel modo, grazie a quei microscopici fili di cotone, le suole non presentavano più alcun difetto: anche il problema del consumo irregolare durante l’uso era stato risolto. Guardando la suola delle scarpe di quell’epoca era possibile vedere la presenza di quei filamenti in cotone che probabilmente rappresentavano un rompicapo incomprensibile per chi si chiedeva da dove arrivassero le nostre suole, quale fosse la nostra tecnologia.


IL SEGRETO

Messo a punto il prodotto, io e mio padre Francesco eravamo davvero entusiasti. Siglammo un accordo con Marangoni che si impegnava a mantenere il segreto della formula della gomma e a produrla in esclusiva per noi. Solo io andavo con il furgone al loro stabilimento per poi portare a noi in azienda le lastre di gomma per le suole acquistate a peso. Arrivavo da loro con il solito furgone Fiat, entravo e andavo vuoto alla pesa dove mi caricavano due bancali di gomma in lastre, pesavamo nuovamente il furgone per il conteggio della merce e mi consegnavano la bolla con i documenti di viaggio. Nessuno doveva sapere che la gomma spagnola proveniva in realtà dagli stabilimenti Marangoni di Rovereto. Dovevo quindi usare la massima cautela nel conservare i documenti per non far vedere l’intestazione di Marangoni. Una fidata impiegata della nostra contabilità, una sola e sempre la stessa, Carla, si prendeva cura di ricevere le fatture da Marangoni e di procedere al pagamento senza farlo sapere a nessun altro all’interno della azienda.


Era un segreto industriale.


Noi, senza bisogno di spiegare alcun dettaglio, dicevamo ai nostri dipendenti, ai nostri agenti e ai nostri clienti che quella che montavamo sulle nostre scarpe era mescola spagnola. Nella loro immaginazione dovevano probabilmente pensare che la mescola spagnola provenisse dalla Spagna, in effetti noi non eravamo tenuti a dire dove la gomma veniva prodotta, esattamente. Era un segreto che dovevamo a nostra volta difendere per proteggerci dalla concorrenza e per parecchi anni è stato un segreto che abbiamo conservato gelosamente soltanto noi tre: io, mio padre Francesco e Carla, la nostra impiegata. Non lo sapeva nessuno ma la gomma spagnola la facevamo produrre in realtà a Rovereto, in Trentino, soltanto a 80 km da Tesero.

«Tutto quello che oggi diamo per scontato in una scarpetta da arrampicata, ad esempio il fatto che fosse flessibile, all’epoca rappresentava il limite da superare»


Alberto Campanile

Nella foto: 1978, Alberto Campanile e Francesco Delladio al lavoro sulla scarpetta Yosemite