The Dawn Wall

Il centro dell'universo

dalle storie di Tommy Caldwell e Adam Ondra


The Dawn Wall, su El Capitan in Yosemite

è considerata la via d’arrampicata su big wall

più difficile del mondo. Liberata da Tommy Caldwell

e Kevin Jorgeson tra il 2014 e 2015 dopo sette anni

di studio, è stata ripetuta da Adam Ondra

in libera nel novembre 2016


Una delle mie prime memorie da bambino, all’età credo di due anni e mezzo, è di me insieme a mio papà rintanati in un buco di neve da qualche parte in montagna, con una tormenta di neve che infuria all’esterno. Non so cosa mio papà volesse dimostrarmi o farmi vedere, esattamente - dovevo essere un bambino un po’ particolare - ma ha sempre avuto questa filosofia: prepara il tuo ragazzo per la strada, non la strada per il tuo ragazzo.


Vivevamo nella parte nord del Colorado, dove risiedo tutt’ora. Ci sono i migliori posti per l’arrampicata di tutto lo stato e si trovano proprio dietro a casa mia. Avevamo orsi che venivano a farci visita in giardino e puma che trascinavano le loro prede fino al nostro recinto di casa. Ho iniziato ad arrampicare da bambino proprio lì e a quattordici anni ho cominciato a vincere qualche gara, tirando anche su qualche soldo con i premi gara. Era strano, arrampicare di professione non era un lavoro che esisteva ma avevo l’impressione che fosse esattamente quello che volevo fare. Così ho incominciato a viaggiare e sono stato ad arrampicare in un sacco di posti. Insieme a quattro altri amici, quando ero poco più che ragazzino abbiamo noleggiato un furgone e siamo stati un mese nel sud della Francia, dormivamo a bordo strada con il sacco a pelo e non facevamo altro che arrampicare. Poi sono stato in Inghilterra. Un po’ dappertutto negli anni, insomma, compresa la Patagonia nel 2014 con Alex Honnold dove abbiamo realizzato il Fitz Traverse. Ma nonostante tutto la Yosemite Valley è sempre rimasta il centro del mio universo.


Ci sono andato ogni anno d’estate a partire da quando ero piccolo. Di Yosemite mi piaceva tutto: le cascate, la roccia compatta e ruvida, il cielo e poi la storia dell’arrampicata e degli arrampicatori mi affascinava. Devo avere salito la mia prima big wall - 900 metri - a dodici anni, con papà. Poi ho iniziato ad andarci da solo, con gli amici, sviluppando pian piano progetti personali. Ho incominciato a lavorare le vie e le big wall e poco alla volta è diventata una specie di ossessione. Mi sono sempre piaciuti i progetti quasi impossibili, al limite, con poche possibilità di riuscita. Salire in arrampicata libera il Dawn Wall è qualcosa che ha preso sette anni della mia vita, sette anni di allenamento e di impegno. Strada facendo ho disegnato e messo a punto un nuovo tipo di scarpe, le TC Pro.

TC sono le iniziali del mio nome e del mio cognome, sono contento che quella scarpa si chiami così. Ho sviluppato uno speciale tipo di unguento per trattare la pelle consumata e abrasa delle dita, serve per fare ricrescere la pelle più velocemente; ho costruito nel giardino di casa mia un pannello con la riproduzione delle prese e dei movimenti più difficili della via e mi ci sono allenato per mesi interi. Sono arrivato al punto di imparare a memoria tutti i singoli movimenti della via - potrei descriverli ora uno per uno - è che ho ripetuto la via così tante volte.
È stato un puzzle gigantesco che si è composto poco alla volta.
Arrampicare in libera su una big wall è come lavorare a qualcosa di gigantesco, devi costantemente tenere tutto sotto controllo e fare liste di cose da portare, tirare su corde e fissarle, organizzare il cibo, organizzare le corde fisse per i filmer nelle zone più adatte per fotografare ma in fondo fai questa cosa con i tuoi migliori amici e anche in parete, a centinaia di metri da terra c’è sempre quell’atmosfera magica che si crea a una festa, come se si trattasse di una vacanza in campeggio con gli amici. In parete la sera abbiamo bevuto whisky e guardato film su Netflix stando sdraiati nelle nostre portaledge fino a farlo diventare normale. È stato abbastanza strano.


Per due anni di fila abbiamo fallito allo stesso punto, al quattordicesimo tiro, circa a metà della via. Siamo arrivati lì e c’è stata una tempesta ed era umido e a quel punto la pelle delle mie dita era completamente consumata. C’era un movimento particolare su quel tiro che era davvero al limite anche con la pelle buona e spendevamo già una settimana per arrivare lì. Ho dovuto imparare come arrivare a quel punto più velocemente, prima che la pelle delle dita se ne andasse del tutto. Poi a quel punto anche la pelle delle dita del mio compagno di arrampicata Kevin Jorgeson è finita e abbiamo dovuto aspettare sul portaledge per una settimana, inventandoci qualcosa con il nastro adesivo, nutrendoci bene e usando una crema speciale che medicasse le dita. Il momento in cui siamo riusciti a passare oltre quella sezione è stato abbastanza esaltante anche se ci restavano ancora almeno altri due tiri duri da superare, prima della fine.

Paradossalmente il momento in cui sono uscito dalla via e abbiamo finito tutto, è stato anche uno dei momenti più stressanti di tutta l’avventura. Avrei voluto andarmene a casa, da mia moglie e da mio figlio. Invece restavano ancora dieci ore di interviste televisive da fare. Poi tutto sarebbe finito e la mia ossessione sarebbe svanita. Non sarebbe rimasto più niente. L’intensità e l’impegno necessari per un progetto del genere ti rendono in qualche modo dipendente da quello che stai facendo, stai con i tuoi amici in situazioni abbastanza paurose, loro diventano la tua famiglia. Leghi con loro. La relazione che si crea è straordinaria. Certe volte mi chiedo: come può la gente normale fare amicizia ed entrare in empatia con gli altri senza arrampicare? Tutto diventa più intenso e nitido quando arrampichi. La cosa che veramente mi guida è l’esplorazione di me stesso, il mio motore è la curiosità. La voglia di conoscere. Arrampicare è un modo grandioso per capire chi sei e di che cosa sei fatto.

Le persone mi chiedono cosa verrà adesso, cosa c’è nel mio futuro. Dopo che hai realizzato un grande progetto di arrampicata pensi che non sia possibile fare qualcosa meglio. Pensi: Yeah! Non c’è niente di meglio che questo. E questo succede tutte le volte, quindi capisci che non è così, che non potrai mai sapere, esattamente.

Devi semplicemente fare quello che ami e che ti sembra meglio e continuare a farlo con passione, e poi alla fine qualcosa salterà fuori. Arrampicare in fin dei conti è come fare qualsiasi altra cosa che ami, qualsiasi lavoro: ad un certo punto pensi che non si possa più migliorare. E poi all’improvviso succede qualcosa e arrivi a qualcosa di meglio. È così che funziona.

L’alternarsi dei sentimenti opposti fa spazio a un caos di pensieri, il cervello è stanco. Meccanicamente mi infilo le Mythos, mi allaccio in vita il sacchetto della magnesite e salgo arrampicando per i primi quattro metri. Sono completamente stordito, non sento niente.

Così non va. Scendo di nuovo, mi siedo un’altra volta su un sasso sotto l’attacco della via. Poi arriva il sollievo, realizzo di essere in grado di interrompere il tentativo in ogni momento almeno fino al punto di non ritorno. Non sono costretto a niente, sono libero. Mi sento di nuovo bene. Dopo una breve pausa riparto e salgo i primi due tiri. Mentre nelle ore prima della salita avevo paura ed ero troppo teso e nervoso, adesso arrampicando finalmente sulla parete, lo stordimento svanisce e torno nella modalità normale dell’arrampicata, la mente è libera. Non sento più paura. Sono semplicemente troppo concentrato sul movimento e sull’arrampicata per avere tempo di avere paura.


Passo oltre la sosta del terzo tiro e dopo quattro metri raggiungo il punto di non ritorno ma non c’è niente da decidere, la decisione è già stata presa. Il passaggio chiave non si trova qui, nel punto critico, ma era prima, all’attacco. Quando ho cominciato a salire. Mettermi alle spalle il vuoto e decidere di salire è stata la barriera da vincere. L’arrampicata in free-solo richiede il superamento di se stessi e il controllo delle emozioni. Ho risolto il primo problema e il secondo mi sembra adesso, a centocinquanta metri da terra, un compito molto più facile. Conosco la via quasi a memoria, ho studiato scrupolosamente tutto e adesso eseguo il programma movimento per movimento – quasi come una macchina. Quasi. Dopo otto tiri raggiungo la grande cengia prima dei tiri chiave. Fino adesso tutto è andato senza il minimo intoppo, anche se ho arrampicato per quasi cinquanta minuti senza mai fermarmi. Tutti i sensi occupati dal movimento sono rimasti ininterrottamente sotto tensione. Mi rendo conto che la mia mente è stanca, non posso essere in grado di mantenere la concentrazione senza fare una pausa. Mi sdraio sulla cengia e fisso a lungo i tetti sopra di me: sono il tiro chiave. Dopo venti minuti di pausa mi rialzo, mi riallaccio le scarpette, tuffo le mani nella magnesite e riparto. Come un operaio che riprende la sua attività dopo la pausa ricomincio, movimento dopo movimento. Senza tanti pensieri. Sempre con lo stesso ritmo finché arrivo in alto, alla fine delle difficoltà. I pensieri cominciano a spaziare di più. Riprendo a percepire quello che mi circonda, vedo le nuvole, i brandelli di nebbia che salgono sulla parete Nord. Più salgo in alto, più divento libero e calmo. Come un fiume che si perde, dopo l’irrequietudine delle rapide, nelle vaste pianure del delta.

«Al confronto di Tommy io ho avuto il grande vantaggio di sapere che non era impossibile. Lui ha speso tre anni di tentativi senza sapere se tra i primi tredici tiri di mescalito ed early morning light ci fosse una connessione possibile. Ha provato prima a fare in libera queste sezioni, sperando di trovare una connessione in seguito. E a me questa sembra una cosa davvero super»

Nelle foto

Adam Ondra su uno dei

tiri chiave del Dawn Wall
© Heinz Zak