Solo

Nelle foto. Prima free solo via Hasse Brandler - Cima Grande di Lavaredo (ITA) - / 550m, 7a+


Negli ultimi giorni pensavo continuamente alla caduta. I miei pensieri andavano a un momento preciso e a una immagine, all’istante in cui si stacca una presa, mi ribalto all’indietro staccandomi dalla roccia e precipito nel vuoto. Cosa si pensa in quell’attimo? Ci si arrabbia per l’errore, per il destino che si è scelto liberamente? Oppure tutti i pensieri restano paralizzati dall’accelerazione estrema? Sentirò qualcosa?

A parte quei pensieri bui, sapevo anche benissimo di conoscere alla perfezione ogni metro difficile della via e di poter dominare ogni passaggio. Nelle ultime ventiquattro ore, sia di giorno che nel dormiveglia, rivivevo continuamente queste sensazioni contrastanti.
Se vado oltre al punto di non ritorno, in basso sul terzo tiro, e decido di continuare, allora significa che devo assumermi la conseguenza di dover salire anche i 500 metri successivi, che io lo voglia, o no.

Esattamente come prima i miei pensieri erano occupati ininterrottamente dalla salita, adesso l’ombra della grande parete incombe sul sentiero che sto percorrendo verso l’attacco della via. Nell’ora di cammino verso la base della parete percepisco solo vagamente il mondo reale. Come nei giorni precedenti e nella notte, mi accompagnano alternandosi i pensieri più bui e la sicurezza di poter dominare tutti i passaggi della via. È una bizzarra lotta di sentimenti che a momenti fa accelerare i miei passi rendendomi irrequieto e mettendomi fretta e che un attimo dopo mi fa tornare calmo e tranquillo.

Alla base della parete realizzo che non potrò cominciare ad arrampicare se i pensieri bui non mi lasceranno. Capisco anche di non avere troppe chances che questo accada. Credo che una volta partito mi basterebbe pensare per un’unica volta all'idea di tornare indietro prima del terzo tiro e del punto di non ritorno, per essere sopraffatto dalla dimensione schiacciante della parete. Ancora una volta cammino avanti e indietro alla base della parete della Cima Grande. Poi mi siedo nuovamente su un sasso. So che devo provarci oggi. Oggi è il giorno. I miei pensieri sono completamente posseduti da questa via e non mi permettono di abbandonare adesso. Ho raggiunto il punto esatto in cui vorrei non avere mai messo gli occhi su questo progetto. Non ho più scelta. Devo andare, devo provare. Oggi è il giorno in cui devo decidere una volta per sempre se voglio salire questi cinquecento metri in free-solo, oppure no. Questa decisione mi colpisce bruscamente. Non me l’aspettavo, fino a due giorni fa credevo di avere la totale libertà di decidere sul quando avrei realizzato il progetto. Adesso invece capisco che la mia mente è ingombra, tutto il mio essere è ossessionato.


E questo è un duro colpo per la mia psiche. La pressione che ho fatto di tutto per evitare, a tutti i costi e con tutti i mezzi, c’è. Esiste. Ora sono un animale braccato, chiudo gli occhi e mi rannicchio stando seduto sul sasso, aspetto di capire ciò che deciderò nei prossimi minuti.


L’alternarsi dei sentimenti opposti fa spazio a un caos di pensieri, il cervello è stanco. Meccanicamente mi infilo le Mythos, mi allaccio in vita il sacchetto della magnesite e salgo arrampicando per i primi quattro metri. Sono completamente stordito, non sento niente.

Così non va. Scendo di nuovo, mi siedo un’altra volta su un sasso sotto l’attacco della via. Poi arriva il sollievo, realizzo di essere in grado di interrompere il tentativo in ogni momento almeno fino al punto di non ritorno. Non sono costretto a niente, sono libero. Mi sento di nuovo bene. Dopo una breve pausa riparto e salgo i primi due tiri. Mentre nelle ore prima della salita avevo paura ed ero troppo teso e nervoso, adesso arrampicando finalmente sulla parete, lo stordimento svanisce e torno nella modalità normale dell’arrampicata, la mente è libera. Non sento più paura. Sono semplicemente troppo concentrato sul movimento e sull’arrampicata per avere tempo di avere paura.


Passo oltre la sosta del terzo tiro e dopo quattro metri raggiungo il punto di non ritorno ma non c’è niente da decidere, la decisione è già stata presa. Il passaggio chiave non si trova qui, nel punto critico, ma era prima, all’attacco. Quando ho cominciato a salire. Mettermi alle spalle il vuoto e decidere di salire è stata la barriera da vincere. L’arrampicata in free-solo richiede il superamento di se stessi e il controllo delle emozioni. Ho risolto il primo problema e il secondo mi sembra adesso, a centocinquanta metri da terra, un compito molto più facile. Conosco la via quasi a memoria, ho studiato scrupolosamente tutto e adesso eseguo il programma movimento per movimento – quasi come una macchina. Quasi. Dopo otto tiri raggiungo la grande cengia prima dei tiri chiave. Fino adesso tutto è andato senza il minimo intoppo, anche se ho arrampicato per quasi cinquanta minuti senza mai fermarmi. Tutti i sensi occupati dal movimento sono rimasti ininterrottamente sotto tensione. Mi rendo conto che la mia mente è stanca, non posso essere in grado di mantenere la concentrazione senza fare una pausa. Mi sdraio sulla cengia e fisso a lungo i tetti sopra di me: sono il tiro chiave. Dopo venti minuti di pausa mi rialzo, mi riallaccio le scarpette, tuffo le mani nella magnesite e riparto. Come un operaio che riprende la sua attività dopo la pausa ricomincio, movimento dopo movimento. Senza tanti pensieri. Sempre con lo stesso ritmo finché arrivo in alto, alla fine delle difficoltà. I pensieri cominciano a spaziare di più. Riprendo a percepire quello che mi circonda, vedo le nuvole, i brandelli di nebbia che salgono sulla parete Nord. Più salgo in alto, più divento libero e calmo. Come un fiume che si perde, dopo l’irrequietudine delle rapide, nelle vaste pianure del delta.