Arrampicare Insieme

testo di Federico Ravassard

Il bouldering è sempre esistito e con esso i suoi personaggi e le sue giornate da ricordare. Pierre Alain, per esempio, cominciò a frequentare i massi di Fontainebleau negli anni ’20, e fu anche uno dei primi a credere nella scarpetta morbida: sugli spalmi dell’arenaria gli scarponi rigidi servivano ben a poco. Negli Stati Uniti, intorno agli anni ’50-’60, John Gill sfruttò il suo background da ginnasta per introdurre l’uso della magnesite in arrampicata. Come lo skateboard, idea figlia dei surfisti annoiati nelle giornate di mare piatto, gli scalatori sfruttavano i massi di fondovalle per allenarsi durante i giorni di brutto tempo o per giocare nelle serate a base di falò e allucinogeni. Ben pochi però, davano al bouldering una sua dignità: bisognerà aspettare ancora qualche anno per vederlo crescere fino ad emanciparsi. Allo skateboard successe grazie agli Z-Boys di Venice Beach, un gruppo di surfisti carismatici e sovversivi, capaci di rompere gli schemi grazie alle loro prestazioni e di uscire allo scoperto sui canali media del momento. Il bouldering in Italia visse una storia simile e in pochi anni la rivoluzione che lo colpì diede come risultati la nascita delle palestre, dei raduni e soprattutto di un nuovo movimento, in cui l’arrampicata da attività di cordata era diventata un’occasione di agglomerazione sociale. Me la sono fatta raccontare da chi la visse e ne prese parte, trascorrendo un pomeriggio al bar del Bside con Marzio Nardi, che è un po’ come andare a casa del nonno a sentire i racconti di una vita intera.


Gli anni ‘90

Alla fine degli anni ’90 l’arrampicata sta ristagnando nell’atmosfera da sbronza agonistica creatasi con le prime gare, nate poco più di un decennio prima. A parte qualche eccezione - i fratelli Huber, ad esempio - gli arrampicatori sportivi puntano a esprimere il massimo delle loro prestazioni sulla plastica con un pettorale addosso, o anche sulla roccia, ma dopo averla modellata con scavi e resina per rendere i movimenti il più simile possibile a quelli che si possono trovare in un palazzetto. La mecca è la falesia di Orgon, in Provenza, sui cui strapiombi è stata disegnata a suon di scalpellate la trilogia di monotiri che all’epoca assegnava lo status di top climber: Le Bronx 8c+, Macumba Club 8c e La Connexion 8c. Per dare un’idea, le prese naturali di Le Bronx sono tre su trenta: l’avanguardia consiste nello scavare appigli sempre più piccoli su strapiombi sempre più forti, anziché scovare una linea scalabile in mezzo ad un mare di roccia.

Poi ci sono, analogamente ai surfisti annoiati della California, gli insorti: uno di questi è Fred Nicole, che dopo aver abbandonato il mondo delle gare nel 1994, comincia a viaggiare alla ricerca non di pareti più o meno alte, ma di massi erratici. Se prima a dedicarsi a tempo pieno al boulder era chi, per questioni geografiche (a Fointainebleau, ad esempio) non poteva scalare su altri terreni, con Fred Nicole si assiste ad una ricerca precisa di quella particolare forma di arrampicata, con la scoperta di luoghi come Rockland in Sud Africa. Il fatto stesso di percorrere migliaia di chilometri legittima quindi il bouldering ad avere una propria dignità e una propria indipendenza quale pratica fine a se stessa. Parallelamente, iniziano a spuntare le prime palestre, in cui allenarsi in modo specifico per poi fare prestazione in un terreno pressoché ancora inesplorato. Nel 1995 in Italia Marzio Nardi e Luca Giammarco fondano il Bside a Torino, una palestra indoor seguita pochi anni dopo dalla nascita della sala di Jolly Lamberti a Roma. Da subito diventano aggregatori di futuri boulderisti e, soprattutto, l’attività su roccia e quella su plastica lavorano in simbiosi come vasi comunicanti, attingendo a vicenda praticanti e con essi nuove idee e punti di vista. Un altro tratto distintivo è il come si scala sulla plastica di quelle palestre: la tracciatura mira a ricreare dentro i movimenti che si potrebbero incontrare fuori, anziché puntare unicamente sull’incremento della forza e della resistenza con sequenze ripetute fino allo sfinimento. Contemporaneamente, si afferma sempre di più un fenomeno sociale basato sul divertimento e l’aggregazione: si va in palestra per allenarsi ma anche per conoscere altri appassionati con i quali andare nel weekend a caccia di massi da pulire e scalare tra schiamazzi e grigliate, quando fino a poco tempo prima l’andare in falesia era spesso sinonimo di una vita di sacrifici e di diete insensate con pochi compagni, rigorosamente in numero pari per ottimizzare il tempo di chi deve assicurare. I primi tempi, racconta Marzio Nardi, il divertimento consisteva anche in quello: a differenza delle falesie, visibili dalla strada, per i boulderisti cercare nuove linee era come andare a funghi, alla ricerca di blocchi nascosti dalla vegetazione. Contemporaneamente, ispirati dai report pubblicati da figure carismatiche come Fred Nicole e Klem Loscot, Marzio e i suoi amici cominciano a spostarsi per identificare passaggi più duri, spesso compiendo lunghi e fantozziani viaggi della speranza: in auto con Alberto Gnerro e Cristian Brenna verso la Svizzera, ma soprattutto le fughe con il treno notturno del venerdì sera da Torino a Fontainebleau. Erano tempi in cui, vuoi per l’assenza fisica di mezzi di comunicazione (a parte report su giornali consunti), vuoi per una mentalità diversa, l’avventura era davvero fuori dalla porta di casa. Ed erano poi gli stessi giornali a fomentare la pratica, a trattarla da protagonista e non come un ripiego per alpinisti annoiati in un giorno di pioggia. Uno dei protagonisti fu Andrea Gallo, che nel 1999 convinse Vivalda, la casa editrice del magazine Alp, a pubblicare un numero speciale incentrato sul freeride, su quelle pratiche che deviando dai normali canoni dell’alpinismo stavano poco alla volta dilagando anche ad altissimo livello: il dry-tooling, lo sci fuoripista e soprattutto, il bouldering.


Sempre in palestra nasce l’idea dell’incontrarsi periodicamente in occasione di gare ad autocertificazione alle quali chiunque può partecipare. Le idee maturano fino al 1999, quando a Triora il fortissimo blocchista ligure Christian Core organizza il primo raduno ufficiale di bouldering sul suolo italiano, al quale prende parte una cinquantina di persone. Il successo dell’iniziativa, apparentemente per pochi intimi, fa si che sull’onda dell’entusiasmo Marzio Nardi e Alberto Gnerro ne organizzino un altro dopo soli pochi mesi. Questa volta l’area scelta è quella del Cubo, in bassa Valle d’Aosta. Inizia a diffondersi quella che è ben più di una semplice moda, ma una rottura con l’arrampicata sportiva di prima e con la sua idea di spettacolo: se a Sportroccia ’86 gli appassionati venivano per assistere all’esibizione dei top climber, ai raduni l’evento era creato dagli stessi partecipanti che venivano per scalare insieme, anziché passare la giornata con il naso all’insù. La differenza che c’è tra guardare una partita di calcio seduti allo stadio o una tappa del Giro d’Italia in cima a un tornante, dopo averlo raggiunto in sella alla propria bicicletta.

La scelta del Cubo non è casuale: qui la coppia Nardi-Gnerro veniva periodicamente a testarsi, dopo che Alberto avevo scoperto un’enorme quantità di massi venendoci a passeggiare in compagnia del cane e della madre. Per quest’area venne anche studiata una scala di difficoltà apposita, perché, vista la scarsa comunicazione, mancavano i riferimenti con le altre realtà. Il grado 8a rappresentava le Colonne d’Ercole, qualcosa di invalicabile, tanto che i due gradarono 7c il blocco Materiale Resistente, ignorando il fatto che altrove sarebbe stato valutato ben di più. Nel 2004 si posiziona il punto di arrivo - e contemporaneamente, di partenza - dei raduni fatti fino a quel momento: nasce il Melloblocco, destinato a diventare il più partecipato evento al mondo dedicato all’arrampicata su roccia.




Il tabellone del cronometro sul traguardo si ferma. Tutto si blocca, anche le bocche spalancate del pubblico che incita sembrano immobili, come in un fermo immagine. Il mondo si ferma. 29’42’’741. Per la prima volta un uomo ha percorso mille metri verticali in meno di mezz’ora. Quell’uomo si chiama Urban Zemmer, contadino e idraulico di Castelrotto, non Usain Bolt o Carl Lewis. Non è un atleta professionista, ma un working class hero. Non ha tabelle da seguire e gel nella tasca, ma la sua benzina sono le lasagne cucinate con amore dalla compagna Astrid. Non va al caldo ad allenarsi in inverno, la sua preoccupazione, quando lascia casa per una gara, sono i vitelli: chi li curerà? Mezz’ora vuol dire tutto e niente. È stato calcolato che l’uomo medio passa circa 54 minuti in viaggio per andare a lavorare, impiega 77 minuti per mangiare, trascorre 177 minuti davanti allo schermo dello smartphone e 168 davanti a quello della televisione. Tutti multipli del record di Urban.


«Sono venuto a Fully per vincere, non pensavo al record, in realtà non avevo nemmeno sensazioni così buone, a Limone un paio di settimane fa non è andata come volevo, il clima non era così fresco e poi quando non sai mai quanto tempo hai per allenarti e non puoi fare programmi non puoi neppure programmare un record» dice Urban. Sapeva che poteva andare sotto i 30 minuti, voleva andare sotto i trenta minuti, ma solo Dio può decidere quando.


Un sottile filo rosso collega Garettes con Ziano di Fiemme. Un filo che viene tenuto da una parte da Massimo ‘Macha’ Dondio, l’uomo ombra di ogni atleta La Sportiva, sia nel mountain running che nello scialpinismo. Macha è il service man presente a tutte le gare, pronto a sostituire il gancio dello scarpone ma anche ad aiutare runner e skialper per la logistica, a metterci la parola giusta, a fare il tifo. È lui che manda subito un messaggio dall’altra parte del filo, a Giulia Delladio, che chiama Lorenzo Delladio: «Me lo aspettavo, Urban era molto ben preparato, prima o poi doveva succedere, ci credeva e negli ultimi mesi abbiamo parlato della barriera della mezz’ora». Lorenzo Delladio manda subito un messaggio a Urban Zemmer. «Mi piace stare vicino agli atleti anche se loro mi vedono come il presidente e pensano che sia su un altro piano, Urban poi è un personaggio molto legato allo spirito La Sportiva: è una persona normale, come tutti noi, non un professionista, neppure giovane, è uno che è sempre andato in montagna, prima delle gare, ed è tutto più bello così».

Un altro sottile filo rosso collega la storia di Urban a quella del Mountain Running.
Un filo che da Ziano riparte per raggiungere le Montagne Rocciose. «Mountain Running è un termine registrato da La Sportiva e fa parte della nostra filosofia, ma ci siamo arrivati anche grazie al Nord America» continua Delladio. «Abbiamo sempre tolto grammi di peso e abbassato i nostri scarponi da montagna. Abbiamo capito che si andava verso la leggerezza e il nostro reparto ricerca e sviluppo aveva questo preciso obiettivo». Così si è arrivati ad avere una scarpa da ginnastica un po’ più rinforzata, la Exum Ridge, del 2002, che è il processo inverso a quello di alcune aziende del mondo del running su strada che hanno ‘appesantito’ la scarpa da corsa. «Non posso negare però che questo processo è stato favorito anche dalla richiesta che arrivava dal nostro distributore in Nord America, nelle persone di Colin Lantz e Ed Sampson: ascoltiamo sempre la voce dei mercati importanti e gli Stati Uniti sono fondamentali per La Sportiva». Nasce così il mountain running, prima ancora delle gare, e significa andare veloci su per le montagne, con una declinazione verso la corsa.

La nuova generazione del bouldering

Oltre alle palestre, l’altro protagonista dell’emancipazione del bouldering fu l’introduzione del crash-pad. Prima degli anni ’90 il terreno preferito erano le foreste in cui i massi poggiavano direttamente su uno strato di terriccio o di erba (avete presente i prati della Val di Mello?) e quando l’atterraggio morbido non era consentito si cercava di limitare i danni con cuscini rubati ai vecchi divani della casa dei nonni. Già a Hueco Tanks gli americani avevano l’abitudine di utilizzare i materassi dei letti. L’introduzione del primo crash-pad appositamente studiato per la pratica allargò in modo esponenziale ciò che si poteva scalare senza dover ricorrere con cadenza mensile ad un ortopedico. O, a vederla in un altro modo, ci si poteva spaccare le caviglie cadendo da un’altezza maggiore a quella di prima. Iniziarono anche a diffondersi maggiormente le ballerine, che rispondevano alla necessità del continuo metti-togli richiesta dal bouldering. La struttura, ridotta al minimo, prevedeva come allacciatura una fascia elastica o un velcro: le Cobra e le Skwama rappresentano bene l’evoluzione della scarpetta da boulder.

Così, un pezzo alla volta il movimento trova la propria identità: l’attrezzatura tecnica c’è, una coerenza ideologica che si muove tra palestre e raduni, pure. Anche in Italia si comincia a fare sul serio, o perlomeno ci si prova. Nel 1998 Marzio apre le danze rompendo il muro mentale dell’8a con Icaro, sulle colline che fanno da sbocco a quella Val di Susa che aveva ospitato Sportroccia dodici anni prima. Nel 2004 l’erculeo Mauro Calibani consacra la serietà del movimento italiano risolvendo le prese svasate di Tonino ’78 a Meschia, l’area che aveva sviluppato letteralmente dietro casa: per la prima volta al mondo viene proposto il grado di 8c+ per un passaggio di blocco. Nel giro di una decina di anni si formò, quasi da zero, quella che Calibani definì la New Bouldering Generation, partita da quegli arrampicatori annoiati che per trovare ispirazione e luoghi dove andare si rifugiavano nelle guide dei massi erratici di Giampiero Grassi e nei fogli scritti a mano dai sassisti della Val di Mello. Tuttavia, quella di inizio anni 2000 non può essere definita un’esplosione del bouldering o dell’arrampicata in generale, sostiene Marzio. Una crescita graduale, quella sì. Ma il boom vero e proprio sta avvenendo in questi anni, soprattutto indoor. L’esposizione mediatica crescente, dovuta anche al fatto di essere una neo-disciplina olimpica, sta facendo sì che una figura appesa a un sasso con le mani sporche di magnesite stia entrando nell’immaginario collettivo al pari di un ciclista o di uno sciatore. E sempre di più i futuri adepti di polpastrelli sbucciati e scarpette strette si avvicineranno alla pratica cominciando proprio dalle palestre indoor, gli stessi luoghi dove una volta andavano quelli forti per essere ancora più forti sulla roccia.

Gli stessi elementi che contribuirono alla rivalutazione nel boulder vent’anni fa sono gli stessi che oggi ne alimentano l’esplosione: i raduni e le gare indoor. Entrambe le pratiche consentono al possessore di una minima capacità tecnica di essere parte di quel movimento. Si dice: Sono andato a scalare al Melloblocco e non Sono andato a vedere il Melloblocco. Su quei sassi c’era Ondra, ma c’erano anche tutti gli altri e ogni partecipante riesce a dirlo con una punta d’orgoglio. «Nell’uomo è molto più forte la voglia di salire piuttosto che di scendere», mi dice Marzio lanciandomi una frecciatina, sapendo quanto io trascuri la roccia nei mesi invernali a favore dello scialpinismo. Inconsapevolmente l’uomo, sin da piccolo, sente la necessità di elevarsi sempre di più, dall’iniziare a camminare eretto e poco dopo al tentare di arrampicare sul primo rilievo o sul primo albero a portata di mano.

Futuro

E il futuro? Mi viene difficile parlare di futuro con Marzio, che sembra vivere gustando al cento per cento il momento presente, noncurante degli anni che passano. Per dare un’idea, la scorsa estate l’ha passata a rimettere a posto da zero una pool in cemento per lo skateboard, assieme agli amici dei figli che, manco a dirlo, potrebbero essere anche figli suoi. Secondo lui, in futuro il bouldering su roccia e quello su plastica vedranno due crescite separate. Il problema sta nella perdita di slancio che colpisce le nuove leve che cominciano in palestra, a cui spesso viene a mancare lo stimolo adatto per andare a scalare anche fuori, all’aria aperta. Con una nota di rammarico, Marzio mi fa notare come tanti nuovi frequentatori della sua palestra vadano poco o niente a cercare nuovi sassi e a spazzolare i blocchi là fuori, perdendosi la parte più bella del gioco. Allo stesso tempo i templi moderni del bouldering continuano a richiamare arrampicatori in pellegrinaggio grazie allo stesso appeal che vent’anni fa quei blocchi spingevano lui e gli altri neo-blocchisti ad esplorare e a conoscere: Magic Wood, in Svizzera, si riempe ogni estate per gli stessi motivi per cui nel 1999 a Triora si radunarono cinquanta sciamannati uniti solo dal desiderio di sentirsi origine e parte di qualche cosa: scalare su bella roccia e stare bene insieme. Assieme ad altre località come Albarracin, Magic Wood agisce da punto d’ incontro dei tanti piccoli movimenti che insieme portano avanti la pratica outdoor, nonostante lo slancio perso negli anni nelle attività di scoperta e pulizia di nuove aree.

«A essere sincero, dubito che nei prossimi anni ci sarà da fare la coda per arrampicare un sasso. Sotto a un blocco in palestra invece, già la si fa». È vero: il Bside, come tutte le altre grandi sale, si è fatto negli ultimi anni sempre più affollato. E non di scalatori che venivano lì per tirare prese e infiammarsi i gomiti sul Pan Güllich, ma di amatori che prima di tutto cercano un punto di ritrovo per stare insieme alla sera dopo il lavoro o l’università. Partendo da questa osservazione Marzio si sbilancia su quello che sarà il futuro delle palestre, a partire dalla sua personale esperienza. I gestori delle sale come lui dovranno ragionare sempre di più in un’ottica imprenditoriale, cercando di dare agli utenti un’offerta più completa di servizi per quella che sta diventando una variante dell’arrampicata con un’anima sempre più fitness. La cosa potrà dispiacere ai puristi ma se non se ne fanno carico in prima persona i boulderisti, che si ritrovano sempre meno in questa variante moderna del loro modo di intendere l’arrampicata, sarà comunque qualcun altro a farlo. Non sarà così improbabile in futuro, vedere un pannello con delle prese sistemato in una sala insieme a una cyclette o a un tapis roulant: vittima di se stessa, l’arrampicata indoor deve pagare il fatto di essere diventata un'attività mainstream. Per i visionari comunque, ci sarà sempre spazio: ovunque si potranno scoprire o riscoprire massi coperti di muschio da pulire e dove andare con gli amici. E anche in città, i pirati avranno possibilità di remare contro e restare alternativi: Marzio mi fa osservare come, tra qualche anno, potrebbero spuntare infrastrutture adatte ad accogliere sport metropolitani pronti a ibridarsi e compenetrarsi a vicenda. Hangar che oltre ai blocchi possano ospitare anche rampe di skateboard o tappeti elastici da parkour. Perché va bene lo sdoganamento e l’evoluzione ma sotto-sotto, l’anima visionaria e l’indole rivoluzionaria uno mica la può cambiare. Quella rimane per sempre, anche dopo vent’anni.